La fragile bellezza di Saint-Louis

La città senegalese, patrimonio dell’Unesco, è diventata un luogo-simbolo delle gravi conseguenze dell’erosione delle coste in Africa Occidentale. Un fenomeno che sta alimentando anche l’emigrazione di moltissimi giovani
«Saint-Louis è una delle regioni più vulnerabili ai cambiamenti climatici. L’ingiustizia, però, sta nel fatto che le popolazioni locali sono le meno responsabili delle cause del riscaldamento globale, ma ne subiscono gli effetti più gravi». Lo scrive un gruppo di organizzazioni del consorzio African Activists for Climate Justice (Aacj) del Senegal in collaborazione con vari partner locali e soprattutto con le comunità della città di Saint-Louis, sulla costa atlantica, a nord di Dakar. Inserita nella lista delle città patrimonio dell’Unesco, per le sue architetture coloniali, si trova in una posizione geografica particolarissima e suggestiva, ma anche estremamente a rischio. L’antico centro storico di Saint-Louis, infatti, è su una piccola isola, tra l’oceano e la foce del fiume Senegal, collegata alla terraferma dal celebre ponte mobile Faidherbe. A proteggere questo lembo di terra dall’impetuosità dell’Oceano Atlantico c’è la cosiddetta Langue de Barbarie – una striscia di sabbia lunga circa 30 chilometri – che separa l’acqua salata da quella dolce ed è densamente abitata da comunità di pescatori. Da anni, però, questa difesa naturale si sta sgretolando, a causa dell’erosione delle coste, mettendo a rischio le popolazioni locali, ma anche l’intero equilibrio dell’habitat circostante, fatto di importanti siti naturalistici, come il santuario degli uccelli del Parco di Djoudj, terza riserva al mondo per importanza, e il parco nazionale che si trova sulla stessa Langue de Barbarie, noto per la sua ricca biodiversità.
È un luogo bellissimo e fragilissimo, Saint-Louis. Perché proprio ciò che rende unica questa città, che fu la prima capitale del Senegal coloniale, rappresenta anche una gravosa ipoteca sul suo futuro. Si stima infatti che le coste senegalesi arretrino tra i due e i dieci metri all’anno, e che l’80% del territorio di questa città potrebbe essere sommerso entro il 2080, costringendo circa 150 mila persone a lasciare le proprie case.
Anche per questo, il consorzio Aacj ha realizzato proprio qui il forum da cui è scaturita la Déclaration de Saint-Louis pour la justice climatique (Dichiarazione di Saint-Louis per la giustizia climatica). «La maggior parte della popolazione senegalese vive di agricoltura, pesca e allevamento – si legge nel documento -. E questi settori sono i più colpiti dalle condizioni climatiche imprevedibili. Senza un’azione immediata e su larga scala a sostegno di pratiche resilienti al clima, l’insicurezza alimentare continuerà a crescere, portando potenzialmente a conflitti per le risorse naturali e ad aumentare la povertà».
Di fatto è quello che sta già avvenendo da diversi anni nella regione di Saint-Louis, ma anche in altre parti del Senegal (e dell’Africa tutta). L’innalzamento del mare, l’erosione delle coste, l’intensificazione delle tempeste, le inondazioni e gli eventi climatici estremi – ma anche l’estrazione di sabbia e l’urbanizzazione non pianificata – contribuiscono ad accelerare la perdita di terre costiere, distruggendo molte abitazioni e villaggi, soprattutto di pescatori, e costringendo migliaia di persone a migrare altrove. Tutta l’Africa Occidentale ne è particolarmente colpita, ma le coste senegalesi e specialmente la zona di Saint Louis – che peraltro è spesso minacciata anche dalle esondazioni del fiume Senegal – lo sono in maniera drammatica. E non da oggi. Anche perché, in questi anni in cui il fenomeno si è accentuato, non sono stati fatti interventi efficaci e sul lungo periodo per mitigarne gli effetti devastanti.
Per questo, i firmatari della Dichiarazione di Saint-Louis si rivolgono alle autorità senegalesi affinché investano «in progetti comunitari che promuovano il ripristino degli ecosistemi degradati, la gestione sostenibile delle risorse idriche e la lotta alla desertificazione, nel rispetto delle conoscenze tradizionali e dei diritti delle popolazioni locali». Insomma, qui come altrove, si dimostra particolarmente importante e strategico coniugare investimenti e iniziative innovativi con le conoscenze e le pratiche autoctone.
«A Saint-Louis – analizza il professor Aly Tandian, docente di Sociologia all’Università Gaston Berger di Saint Louis, esperto di cambiamenti climatici, strategie di adattamento e migrazioni – le conoscenze delle popolazioni locali sono di grande interesse, in particolare per la capacità di adattamento ai cambiamenti climatici, come inondazioni, innalzamento del livello del mare, brusche variazioni di temperatura, irregolarità nelle precipitazioni, e così via. Queste conoscenze sono un elemento fondamentale per comprendere e analizzare le dinamiche climatiche attuali. È quindi opportuno comprendere le visioni che le popolazioni hanno dei recenti cambiamenti, soprattutto perché queste percezioni danno origine a pratiche e a meccanismi di difesa e di adattamento degli abitanti, sui quali si possono costruire vere e proprie strategie su scala locale, regionale o nazionale». Tutto questo andrebbe fatto tenendo conto anche degli errori o delle mancanze del passato.
«Nel comune di Saint-Louis, in particolare – fa notare il professor Tandian – alcune località sono state esposte al fenomeno del cambiamento climatico già a partire dagli anni Settanta. Da allora le attività produttive hanno cominciato a sperimentare le difficoltà che oggi sono sempre più diffuse».
Rafforzare la partecipazione dei cittadini è quanto chiedono anche le organizzazioni del Consorzio Aacj, secondo le quali è fondamentale il coinvolgimento attivo delle comunità e della società civile, e in particolare dei giovani e delle donne, che sono spesso le fasce sociali più vulnerabili e devono affrontare le sfide più grandi. Giovani e donne, tuttavia, hanno anche una grande capacità di adattamento, resilienza e creatività e un immenso potenziale, che può essere messo in campo per contribuire a combattere gli effetti nefasti del cambiamento climatico nei luoghi in cui vivono. «È fondamentale che le voci dei più vulnerabili siano ascoltate e coinvolte nei processi decisionali a livello nazionale e internazionale».
Per fare questo, però, c’è bisogno di molta più sensibilizzazione e formazione. Ancora oggi, meno del 50% delle donne senegalesi è scolarizzato e circa metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Per molti giovani il lavoro resta un miraggio al di fuori del settore “informale”. E così il Senegal continua a essere un Paese di migranti, sia interni che internazionali. Sono moltissimi infatti coloro che dalle zone costiere o dalle regioni rurali agricole – anch’esse duramente colpite da desertificazione e da eventi climatici estremi – vanno a ingrossare le periferie sempre più vaste e invivibili di città come Dakar, la cui area metropolitana ha raggiunto i 4 milioni di abitanti, o si avventurano lungo le rotte perigliose del deserto o dell’Oceano Atlantico, in direzione isole Canarie.
Molti partono proprio da Saint-Louis e dintorni, dove tanti pescatori – che hanno perso la casa per via dell’erosione delle coste o che non trovano più pesce a causa della presenza sempre più invasiva di pescherecci stranieri – si sono “riciclati” in passeur di migranti e cavalcano con le loro piccole piroghe la vastità dell’Atlantico verso le isole spagnole. Una rotta che nel 2024 è stata tra le più battute verso l’Europa, con quasi 47 mila sbarchi, e purtroppo anche con un numero incalcolabile di morti e dispersi.
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