Tra la gente per il mondo

Fondate nel 1957 da don Cesare Volontè, le Piccole Apostole di Gesù sono oggi una congregazione formata in gran parte da religiose burundesi, presenti oltre che nel cuore dell’Africa anche in Nepal e Brasile
Dalla Bassa milanese al Burundi. E dal cuore dell’Africa al Nepal e al Brasile. Le Piccole Apostole di Gesù, nate nel 1957 su iniziativa del sacerdote milanese don Cesare Volontè, continuano a portare avanti una vita di testimonianza in alcuni degli angoli più remoti e poveri del mondo, seguendo lo spirito del fondatore. E anche quello dei tempi. Oggi, infatti, questa piccola congregazione parla soprattutto burundese. Delle 65 sorelle che ne fanno parte, infatti, una dozzina sono italiane, una brasiliana e tutte le altre sono originarie del piccolo Paese situato nel cuore dell’Africa dei Grandi Laghi.
Le riflessioni di sorella Gloriosa, che dopo un decennio in Nepal guida da sette anni la congregazione, si intrecciano ai racconti delle pioniere, come Anna e Piera, che furono tra le prime a recarsi in Burundi, rispettivamente nel 1971 e 1978. Sullo sfondo si sentono le voci delle addette alla cucina – un misto di italiano e urundi – mentre dal giardino e dai pollai arriva il chiocciare delle galline. Sono migliaia e verso Natale saranno ancora di più: si arriva a circa 5 mila e sono l’aspetto più curioso di questa presenza sulle verdi colline di Appiano Gentile nel Comasco, dove ha sede la Casa madre della congregazione. «Siamo circondate dai volatili!», scherzano le religiose, che su questo allevamento e sulla vendita di uova e di ortaggi biologici fondano il loro sostentamento e quello delle missioni.
«Anche in Burundi avevamo i polli», ricorda sorella Piera. Mentre sorella Maria Luisa fa notare che in Nepal allevano le capre e lavorano nelle risaie. Cambia il contesto ma non lo spirito. Che è quello di una presenza semplice, cinquant’anni fa come oggi, articolata attorno al lavoro, alla preghiera e alla vicinanza alle persone. «Abitavamo in casette semplici, sulle colline, in mezzo alla gente. L’obiettivo è sempre stato quello di creare relazioni e amicizia, testimoniando il Vangelo nella quotidianità. E di aiutare nelle situazioni più difficili», racconta Piera che in Burundi è rimasta più di cinquant’anni. Come lei le altre due pioniere, Luisa e Luisella, che si sono sempre occupate del piccolo dispensario diventato ormai un ospedale da 260 posti-letto. «Ricordo ancora il nostro primo parto – rievoca sorella Piera -. Abbiamo sentito le grida di una ragazza e siamo accorse tutte e tre, ma non sapevamo bene cosa fare. E poi il travaglio era già molto avanzato. Alla fine, ha fatto quasi tutto la suocera che l’ha fatta partorire sotto un albero. Solo dopo abbiamo portato mamma e bambino nel dispensario. In seguito, abbiamo fatto molto lavoro di formazione del personale locale e abbiamo potuto contare non solo sulla presenza dei fidei donum, ma soprattutto su quella dei volontari del Vispe, che con le loro competenze hanno dato slancio a tante attività».
A quel tempo il Burundi era un Paese poverissimo e Mutoyi un puntino quasi invisibile sulla cartina geografica. Tutto era difficile e faticoso e non sono mancati problemi ed emergenze, «ma sono stati anni bellissimi!», ripetono continuamente le religiose: «Ci hanno accolte come dei doni. Sono stati anni di grande condivisione, conoscenza, lavoro, amicizia. Imparavamo reciprocamente a conoscerci e a volerci bene, nonostante le culture diverse». E anche a rimboccarsi le maniche. Un po’ alla volta, grazie anche alla presenza di decine di laici, spesso con le loro famiglie, sono nate molte iniziative anche in altri villaggi come Bugenyuzi, Ghiogazi, Bikinga e nell’ex capitale Bujumbura, dove è stato aperto un negozio per la commercializzazione dei prodotti delle missioni. Ad occuparsene c’era una suora estremamente dinamica e con grandi capacità organizzative e imprenditoriali, sorella Giulia, che purtroppo è deceduta nei primi mesi del Covid, quando ancora non si erano prese le contromisure per affrontare la pandemia. Oggi il negozio, come molte altre attività, compreso l’ospedale, sono nelle mani di personale locale.
Molte di queste iniziative sono nate dal nulla, come la falegnameria, il mattonificio, il pentolificio, gli allevamenti di polli e il mangimificio, e tantissime altre attività, in particolare nel campo dell’agricoltura – anche per combattere la malnutrizione, soprattutto infantile, che era diffusissima – e dell’accesso all’acqua, con la creazione di bacini e di piccoli acquedotti con pannelli fotovoltaici, che pompano questo bene preziosissimo sino in cima alle molte colline del Burundi. «Ancora oggi alle donne si illuminano gli occhi!».
«I miei primi ricordi – interviene sorella Gloriosa – riguardano don Virginio Romanoni, che oggi ha 84 anni e vive ancora nel mio Paese. Veniva da mio padre per capire come seminare e come introdurre nuovi ortaggi per variare la nostra dieta. Io seguivo da lontano, un po’ curiosa e un po’ intimorita da quell’uomo bianco…».
«Insegnavamo alle ragazze a coltivare – continua sorella Piera – in modo che avessero ortaggi per la sussistenza e qualcosa da vendere al mercato. Abbiamo fatto moltissima formazione e sensibilizzazione. Si lavorava con i capi villaggio, che ci tenevano a migliorare le condizioni di vita della gente».
La loro presenza è stata fondamentale anche durante gli anni terribili della guerra civile, tra il 1993 e il 2003, quando il Paese – prima e dopo il più noto genocidio del Ruanda – è sprofondato esso stesso nella spirale della violenza e dell’odio etnico. «Abbiamo accolto molte persone in fuga, nascondendole nell’ospedale, nei forni, in casa… A un certo punto avevamo donne sotto i letti e in ogni angolo della casa e bambini sperduti che venivano a cercare le loro mamme. Sono stati anni difficili», ricordano le religiose, che però non hanno mai pensato di lasciare il Paese. «Se fossero andate via anche loro, sapevamo che non c’era più speranza», interviene oggi suor Gloriosa.
Il 3 ottobre del 2000, tuttavia, sono state colpite da un lutto lacerante. Alla periferia di Bujumbura, infatti, fratel Antonio Bargiggia viene ucciso da quattro militari allo sbando. Era arrivato in Burundi nel 1979 con il Vispe, con cui aveva continuato a collaborare strettamente dopo essere entrato nell’associazione Fratelli dei poveri, una famiglia religiosa di laici consacrati, contrassegnata dallo stesso spirito di povertà e condivisione che le sorelle hanno continuato a portare avanti.
«Tra le tante iniziative – spiega sorella Gloriosa -, sono stati creati molti centri di salute, dove si insegnava alle mamme elementi di educazione sanitaria e igiene e dove sono state introdotte le vaccinazioni. Si è fatta tantissima formazione per prevenire le malattie, la malnutrizione e ridurre la mortalità materno-infantile, che era molto alta». Lei stessa è stata coinvolta in molti di questi programmi, quand’era giovanissima, dai 14 ai 19 anni. «Sono praticamente cresciuta con le sorelle e un po’ alla volta mi sono innamorata del loro modo di vita», dice.
È stata tra le prime burundesi a entrare nella congregazione: «Ero la maggiore di dieci figli, sette dei quali sono morti. I miei genitori contavano molto su di me e facevano dei progetti. Hanno fatto fatica a lasciarmi andare: poi hanno capito che la mia scelta rientrava in un progetto più grande voluto da Dio».
Un progetto, in effetti, molto più grande di quanto lei stessa immaginasse e che l’ha portata sino all’altro capo del mondo. Destinazione: Nepal. E questa volta toccava a lei fare da pioniera. «Dopo avervi trascorso alcuni mesi nel 2003 per imparare la lingua – racconta – l’anno successivo eravamo pronte a partire per raggiungere i volontari del Vispe a Pokara. Ma poi l’ong locale che avrebbe dovuto accoglierci ha cambiato parere. E così sembrava chiudersi la porta del Nepal ancora prima di partire». Poi, come spesso capita, per una porta chiusa se ne aprono tante altre inaspettate. «La Fondazione Fratelli dimenticati, che opera in quel Paese dal 1997, ci ha proposto di collaborare con loro, esattamente dall’altra parte del Nepal, a Bharoul. Siamo partite in tre. E anche lì non è stato facile, perché è un contesto in cui in nessun modo si può dire di essere cristiane, ma si può testimoniarlo».
Ed è proprio quello che continuano a fare, attraverso la vicinanza a
malati, persone con disabilità e
mushar, letteralmente “mangia-topi”, la casta più bassa e disprezzata della popolazione. «Ci prendiamo cura di loro, andiamo nei villaggi, lavoriamo nelle risaie, cerchiamo di parlare il meglio possibile la loro lingua. Così, in modo semplice, si sono aperte molte porte. E anche le nostre non si chiudono mai – racconta sorella Maria Luisa -. Questa esperienza e questa condivisione, nel quotidiano, questa testimonianza silenziosa nelle parole ma non nei gesti, hanno insegnato anche a noi un modo diverso di vivere il cristianesimo, sfrondandolo di tante cose superflue per dire che Dio è padre di tutti, anche di chi non lo sa».
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