Quando Nadia, migrante coi migranti in Perù, raccontava la sua missione

Quando Nadia, migrante coi migranti in Perù, raccontava la sua missione

Nadia De Munari, la missionaria vicentina uccisa a Chimbote dopo 26 anni di attività con l’Operazione Mato Grosso, in un’intervista a una radio locale tre anni fa raccontava così la sua vita al servizio del mondo: “Tutti siamo creati per donare agli altri: è l’unica cosa che ci rende più felici”

 

Nadia De Munari – missionaria laica in Perù dal 1995 – non ce l’ha fatta: è morta venerdì per le conseguenze di un’aggressione avvenuta a Nuevo Chimbote, sulla costa centro-settentrionale del Paese, nella casa “Mama Mia”, il centro dell’Operazione Mato Gosso per il quale svolgeva il suo servizio. Una morte che va ad aggiungersi a quella di altri due missionari italiani di questa stessa associazione, colpiti in Perù in anni recenti: nel 1992 era stato infatti ucciso il laico valtellinese Giulio Rocca, colpito a morte dai guerriglieri di Sendero Luminoso. Nel 1997 a donare la vita era stato invece padre Daniele Badiali, missionario fidei donum della diocesi di Faenza, che in Perù era già arrivato tanti anni prima proprio con l’Operazione Mato Grosso.
Il movimento, fondato più di 40 anni fa da padre Ugo De Censi, ha il suo cuore proprio nella Sierra, le montagne della Cordigliera delle Ande. Lì ai 3200 metri di altezza di Chacas, tra la povertà e la desolazione della gente che si dedicava all’agricoltura di sussistenza e al lavoro in miniera, padre Ugo aveva avuto l’idea di insegnare mestieri quali la carpenteria, la scultura, l’artigianato. Oggi l’Operazione Mato Grosso – presente anche in Bolivia, Ecuador e Brasile – ha 50 missioni in Perù dove il lavoro è sostenuto dalle donazioni che i volontari raccolgono imbiancando case, raccogliendo rifiuti, vendendo materiali riciclabili e come braccianti nelle fattorie. Dopo 20 anni nella Sierra, Nadia si era spostata a Nuevo Chimbote per seguire le famiglie emigrate dalle montagne verso la costa. Nel 2018, insieme alla volontaria Teresi Bossini, aveva raccontato in quest’intervista alla radio di Chimbote la sua ultraventennale esperienza missionaria in Perù. Una testimonianza che vogliamo riproporre oggi per scoprire quale ricchezza ci fosse nella sua scelta di lasciare la sua Schio (Vi) per donare fino in fondo la propria vita agli ultimi in una periferia del Perù.

 

Nelle zone rurali del Perù la povertà è grande, com’è stato – le chiedevano – il cambiamento rispetto alla tua vita in Italia?

Noi non siamo arrivati senza esperienza – rispondeva Nadia -. Gli amici che sono venuti in missione prima di noi al loro rientro ci avevano portato le loro foto, raccontato le loro esperienze, idee e difficoltà e quindi abbiamo vissuto un cammino di preparazione. Il lavoro di gruppo che si fa in Italia aiuta moltissimo a rafforzarsi, lavorare e vivere insieme aiuta molto una volta in missione dove si vive in comunità. Qualunque sia il lavoro, anche quello di raccogliere la spazzatura, ti insegna a fare sacrifici a mettere le mani per fare qualcosa e risolvere i problemi. Siamo quindi arrivati formati e la preparazione è stata graduale. Non siamo obbligati a venire e restare per anni. Per esempio, i ragazzi che vengono per la prima volta in missione si fermano sei mesi; poi, una volta in Italia, riflettendo e confrontandosi con gli amici possono scegliere di ritornare per un anno o due e poi, un giorno, decidere di restare più anni o tutta la vita come stiamo facendo noi. È una scelta molto libera, un passo dopo l’altro, graduale.

Quali sono le missioni che si sono sviluppate in tutti questi anni?

Ho vissuto 20 anni nella Sierra dove mi è stata affidato il compito di far studiare i giovani, quindi una missione educativa e di istruzione. Sempre più famiglie intorno a me, però, si trasferivano a Lima e a Chimbote, sulla costa. Non capivo come potessero lasciare le loro cose, la loro casa e i propri affetti. Ora, dopo essere venuta qui, mi accorgo dell’emergenza sociale: tanti portano nelle città tutta la famiglia tra rischi e precarietà. Per questo padre Ugo ci ha chiesto di vivere in mezzo alle persone con le quali abbiamo lavorato sulla Sierra. Qui, infatti, ci sono nostri compaesani; stiamo in mezzo a loro, cerchiamo di sostenerli. Un’importante realtà è quella dei bambini: ci sono tante famiglie giovani, i genitori hanno dai 20 ai 23 anni con bambini molto piccoli e numerosi, abbandonati sulla sabbia. E qui non c’è futuro. Per un bambino un ambiente sano è un ambiente dove ci sono alberi, possibilità di giocare e saltare, dove non ci sono rischi. Le mamme stesse raccontano i loro timori e per questo i bambini restano chiusi in casa davanti alla televisione o al cellulare. Noi, che abbiamo a cuore l’istruzione dei bambini e dei giovani, siamo rimasti scioccati da questa realtà e, avendo vissuto per anni sulle montagne, non sapevamo com’era vivere sulla costa. Abbiamo dovuto costruire sulla sabbia, dove non c’erano servizi di base: persino l’acqua mancava, bisognava comprarla. Ci siamo affidati a padre Ugo senza avere soldi in tasca.

E come avete fatto?

Eravamo preoccupati, ma avendo visto come padre Ugo ci ha condotto verso cose buone in tutti questi anni abbiamo detto sì. La cosa che ci ha commosso è stata che i giovani a cui fino ad allora avevamo dato un’istruzione sono venuti ad aiutarci, pagandosi il viaggio dalla Sierra. Nel 2015 più di 1.500 giovani sono venuti per costruire cinque scuole primarie sostenendoci con il denaro ricavato dalle loro attività e nel 2016 hanno anche costruito una scuola di secondo grado dove gli studenti possono imparare un mestiere.

Con le missioni siete presenti in più parti del Perù, sulla costa, sulla Sierra… Quali sono le differenze che avete incontrato nelle diverse regioni?

La vita nella Sierra era più naturale, quella in città è più affollata, c’è più violenza, più solitudine. I vicini non si conoscono. Le persone che dalla Sierra si sono trasferite sulla costa si sono alleate con le proprie famiglie, con i legami di sangue. Qui devono ricostruirsi una storia. E non è facile perché la sfiducia nei confronti degli altri è tanta.

Non tutti hanno il coraggio di lasciare le proprie cose per preoccuparsi per gli altri. È una virtù che pochi possiedono.

Io credo che tutti siamo stati creati per donare agli altri e la cosa che ci rende più felici è scoprire che tutto quello che abbiamo, che sappiamo fare e che ci è stato insegnato possiamo condividerlo con gli altri. La cosa brutta di questo mondo è la mentalità secondo cui la felicità sia l’avere per se stessi, l’accumulare, senza pensare che quando si muore non ci si può portare dietro nulla. Dove la porti la tua ricchezza? Quindi – soprattutto attraverso i giovani che hanno un cuore pulito e bello nonostante i difetti – scoprire che c’è voglia di cambiare. Questa è la felicità: non deriva dall’accumulare, ma dal regalare. Può essere un sorriso, un gesto, una chiacchierata. Tu hai bisogno, io ti aiuto. Questo è ciò che ci arricchisce.