Pasqua di pace per il Manipur ferito

Da due anni lo Stato del Nord-est dell’India è scosso dalle violenze tra i meitei e i tribali kuki-zo. L’arcivescovo Neli: «Preghiamo e promuoviamo riconciliazione»
Un piccolo Stato di appena 3,7 milioni di abitanti nel Nord-est dell’immensa India, in quella lingua di terra che va a incunearsi oltre il Bangladesh, fino alle frontiere con il Myanmar e la Cina. Un crocevia caldissimo per le ripercussioni del conflitto nell’ex Birmania, ma anche per i traffici di droga cresciuti all’ombra delle sue milizie. Da quasi due anni, però, il Manipur è teatro anche di una ferita tutta sua: uno scontro interno tra i due principali gruppi etnici che lo abitano: i meitei, gli abitanti della città di Imphal, il suo capoluogo, e delle aree della pianura, e i kuki-zo, i gruppi tribali dei villaggi nelle aree montuose circostanti. Uno scontro esploso in maniera violenta nel maggio 2023 e che ha già fatto più di 250 morti. Ed è una tragedia vissuta con particolare sofferenza dai cattolici dell’India: il Manipur, infatti, è uno degli Stati indiani dove la presenza cristiana è più forte, soprattutto tra i kuki-zo. Il censimento del 2011 – tuttora il più recente condotto in India – li stimava addirittura al 41,6% della popolazione locale, con comunità vivaci, ricche anche di vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata.
Su tutto questo si è abbattuto il ciclone delle violenze su base etnica, che ha portato con sé anche la distruzione di decine di chiese, scuole, ostelli e ha reso almeno 67 mila persone sfollate interne nella loro stessa terra. A innescare lo scontro è stata anche qui la questione dei diritti sulle terre: il governo locale del Bjp, il partito nazionalista indù del premier Narendra Modi, ha acceso la miccia decidendo di estendere anche ai meitei alcuni diritti riservati ai tribali kuki-zo, che sono la minoranza. Un provvedimento che ha posto le premesse per una guerra tra poveri, alimentata anche dai pregiudizi nei confronti delle popolazioni birmane in fuga dalla guerra in Myanmar, etnicamente legate ai gruppi tribali locali.
Le proteste sono degenerate molto in fretta in violenze su larga scala, che il governo centrale di Delhi non ha saputo (o voluto) controllare in fretta. Il risultato è che a due anni di distanza il Manipur resta profondamente diviso, con scontri che di tanto in tanto riesplodono lasciando dietro di sé nuove vittime nel contesto di quella che appare più come una tregua armata che una soluzione dei problemi. Lo stesso Modi – che non ha mai messo piede nel Manipur in questi due anni – nel febbraio scorso ha scaricato il capo del governo locale Biren Singh, suo alleato, imponendo ad Imphal il governo presidenziale, una facoltà prevista dalla Costituzione indiana che in situazioni di particolare gravità permette al governo federale di assumere poteri speciali in determinati territori.
Dentro a una situazione così difficile in questi due anni l’arcidiocesi cattolica di Imphal è stata una delle voci che più di ogni altra ha invocato la riconciliazione tra i due gruppi. A partire anche dalla propria esperienza concreta: se infatti la maggior parte delle parrocchie si trovano nei villaggi kuki-zo sulle colline, la Chiesa locale ha la sua sede a Imphal, dove vi sono anche comunità cattoliche meitei. E proprio la sfida di ricominciare a immaginare un futuro insieme è il filo rosso del magistero dell’arcivescovo monsignor Linus Neli, 67 anni, chiamato da Papa Francesco ad assumere la guida di questo “gregge” proprio nel mezzo di questa grande prova, nell’ottobre 2023.
Nonostante le chiese distrutte e abbandonate, in cui lui stesso nel primo anniversario dell’inizio delle violenze si è recato a pregare, il suo invito è stato costantemente quello a non cedere alla narrazione dello “scontro confessionale”. A Natale ha invitato il Manipur «che ha sofferto violenza e disordini per molti anni» a «celebrare la pace». E anche commentando all’agenzia Fides il provvedimento sul governo presidenziale ha citato il Giubileo della speranza auspicando che possa stimolare nella sua terra «un passo concreto di riconciliazione» attraverso «una volontà condivisa» tra i due gruppi.
Parole che la Chiesa cattolica del Manipur accompagna con gesti che alimentano la speranza. Innanzi tutto attraverso il sostegno concreto che – grazie anche alla solidarietà delle altre diocesi di tutta l’India – porta alle migliaia di sfollati. Nella parrocchia di Singangat, per esempio, sono in costruzione 600 case per chi ha perso tutto negli incendi dei villaggi avvenuti nella prima ondata di scontri del maggio 2023. Ma la ricostruzione non è solo fisica: ci sono anche le ferite del cuore e della mente da rimarginare. E a questo guarda un’iniziativa specifica mirata alla cura delle persone vittime di traumi psichici che tuttora si incontrano nei campi degli sfollati.
Il tutto dentro una comunità che anche nella prova celebra la sua fede. E una testimonianza la si è avuta qualche settimana fa, quando con una celebrazione avvenuta in una cappella a Lamka la comunità cattolica zo ha accolto la traduzione definitiva del messale nella propria lingua locale. A realizzarla è stato padre Mark Aimeng, che nel 1983 fu il primo sacerdote cattolico proveniente da questo gruppo etnico a essere ordinato. Il rito, allora, si tenne nella parrocchia di San Giuseppe a Sugnu, una delle chiese distrutte nelle violenze. Ma guardando oltre a quelle ceneri alcune migliaia di cattolici in questa terra tribolata a Pasqua potranno celebrare in un modo ancora più vicino alla propria esperienza il Cristo Risorto. Attendendo anche per questa terra il giorno della resurrezione.
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