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Pensionamento

Qualche tempo fa “Missio Svizzera”, bollettino delle Pontificie Opere Missionarie in Ticino, che in vari modi hanno aiutato anche il PIME in Bangladesh, mi ha chiesto di descrivere la mia esperienza in questo Paese.

L’ho fatto e ora – con qualche ritocco – lo presento come “Scheggia di Bengala”, unendolo a un cordiale “Grazie” a Papa Leone il quale mi ha dato una mano. Infatti continuavo a chiedermi come impostare l’articolo, cosa dire e come dirlo… quando, in un messaggio che ha inviato al Meeting di Rimini (agosto 2025), ho letto questa sua descrizione: «La missione non è promozione di sé, ma umile testimonianza vissuta in vicinanza e fraternità fino al dono della propria vita, in comunione profonda con tutta l’umanità, superando muri di sfiducia e divisioni fra religioni e culture, imitando pienamente l’incarnazione e la donazione di sé del Figlio di Dio. Evangelizzare non è semplice ripetizione del nome di Gesù Cristo ad ogni occasione, invece di accogliere la sfida di seguirlo nella concretezza della vita, con scelte radicali, al servizio degli ultimi…». Parole semplici, impegnative, vere che mi hanno aiutato a ripensare alla mia esperienza e a scriverne qualcosa…

Insieme all’amico p. Achille Boccia, arrivai a Dhaka nell’autunno del 1978. L’aereo, in grave ritardo, era atterrato in piena notte, non c’erano luci nella città, nessuno ci aspettava. Abbordammo una FIAT 1400 stravecchia che si proclamava “taxi”, ma partiva solo se spinta… dai passeggeri. Non avevamo idea di quanto fosse distante l’alloggio affittato dai nostri confratelli, e di come farci capire dal nostro improvvisato taxista. Fu un avvio… sconcertante.

Il Bangladesh era “nato” soltanto 7 anni prima, separandosi dal Pakistan dopo dieci mesi di guerriglia sanguinosa, milioni di persone fuggite oltre confine, un intervento lampo dell’esercito indiano, e dopo (1975) un colpo di stato in cui il “Padre della Patria” era stato massacrato insieme ad una quindicina di famigliari e domestici… Era un Paese nuovo, conosciuto solo per I cicloni che lo devastavano, per l’estrema povertà che lo affliggeva, per l’alto tasso di analfabetismo e per le previsioni pessimistiche che si facevano sul suo conto: «Il Bangladesh – aveva detto Henry Kissinger – è un sacco senza fondo, che nessuno riuscirà mai a riempire…».

Mentre percorrevamo con ansia le mille buche di strade buie, sporche e sconosciute, ci chiedemmo: «Che cosa faremo qui?». La risposta venne dopo un breve silenzio: «Dio era qui prima di noi, e ci aspettava. Lo cercheremo qui…»

Ma come, la missione non dovrebbe essere annuncio? Certo, per questo ha tanti passi da fare; il Figlio di Dio attese trent’anni prima di incominciare a predicare.

«Superando muri di sfiducia e divisioni fra religioni e culture…», dice Papa Leone. Il Bangladesh è un Paese a grande maggioranza islamico; ci siamo chiesti più volte che senso avesse la nostra presenza qui, dove tutti ci dicevano che «I musulmani non si convertono», e che sono sospettosi nei nostri confronti. Per prepararci avevamo studiato l’lslam e la sua storia e questo fu un buon aiuto, ma non era certo sufficiente: occorreva osservare senza pregiudizi, liberarsi dei luoghi comuni, non focalizzare l’attenzione su ciò che dispiace. Le differenze ci sono, molto rilevanti; non vanno ignorate, ma neppure vanno considerate muri invalicabili: il dialogo “fra religioni” non esiste, mentre può esistere il dialogo fra persone di religioni diverse. In occasione della morte di Papa Francesco, un giovane amico musulmano che è impegnato – insieme ad alcuni di noi missionary – nell’assistenza a bambini che vivono in strada, gli ha indirizzato una breve lettera scrivendo tra l’altro: «Tu eri una rivoluzione di gentilezza, bontà. Tu hai scosso pareti costruite in secoli di silenzi e paure. Nel tuo volto ho visto l’ombra di Gesù – gentile, franco, e pieno di misericordia».

Ma non solo la religione può costituire un “muro” che separa! C’è la lingua, ci sono le tradizioni, le condizioni economiche: a me non mancava nulla, percio’ mi sentivo fortemente a disagio fra persone che non avevano i mezzi per curarsi una malattia, per mandare a scuola i figli, per mangiare tutti i giorni… puo’ la fame comunicare con chi è sazio? Certo, cercavo di aiutare i più poveri, ma sentivo che questo non diminuiva le distanze: io ero quello che poteva dire si’ o no, e loro quelli che dovevano chiedere… Eppure, piano piano, ho scoperto che queste distanze diminuivano un poco, che ero contento di essere con loro, pur nelle nostre diversità e nei nostri disagi. No, io non sono diventato un bengalese… sono uno straniero che sta volentieri con loro, che scopre le loro qualità e sopporta i loro limiti senza voler fare da maestro in tutto. Il Papa scrive che per vivere la missione bisogna «imitare pienamente l’incarnazione e la donazione di sé del Figlio di Dio». Un modello, una imitazione che intimidiscono, che sono “sproporzionati”, e tuttavia ispirano e sostengono: se Gesù ha fatto un passaggio “infinito” dalla condizione divina alla condizione umana, come spaventarsi di un passaggio, certo molto meno radicale, ma per noi significativo, da una cultura e da un modello di vita ad un altro?

Sono rimasto in Bangladesh fino al 1983 poi, ho ricevuto altri incarichi e ne sono rimasto lontano a lungo. Al ritorno, nel 2002, tante cose erano cambiate: l’elettricità si era diffusa nei villaggi, le strade erano migliori, si era avviato un rapido processo di industrializzazione… ma non ritornavo per questo, ritornavo perché sentivo che ormai “appartenevo” un poco anche a questo popolo e alla sua storia: non ai grandi eventi storici naturalmente, ma alla storia della gente comune, giorno dopo giorno…

E ora? E ora, dopo un altro intervallo in Italia (due anni), mi trovo di nuovo qui. Qualcuno mi chiede: «Ma… hai 81 anni suonati! non ti pare che sia il momento di andare in pensione?». Domanda legittima, specialmente se si considera che la “resa” nel lavoro che posso fare diminuisce di giorno in giorno… ma la missione non è un lavoro, è un modo di essere insieme, e quindi si può essere insieme anche da vecchi; con il passar del tempo le modalità e le attività cambiano, ma rimane – anzi, forse si chiarifica meglio – lo spirito. Fraternità e amicizia, paternità e simpatia non vanno in pensione…

Sono qui volentieri, ho tanti contatti e tanti amici, rispetto e cerco di capire chi è diverso da me e cerco di rendermi sempre più capace di voler bene.

Risultati? Non li conto; il Signore vede e sa.

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