Dayton, la pace “sporca”
Nel novembre del 1995, in Ohio, veniva firmato l’accordo che pose fine alla guerra nella ex Jugoslavia: un compromesso che è riuscito a far tacere le armi ma non ha aiutato la ricostruzione del tessuto sociale. Una lezione anche per oggi
Era il 21 novembre 1995 quando, dopo tre settimane di serrati colloqui nella base aerea statunitense di Dayton, in Ohio, il presidente jugoslavo Slobodan Milošević, quello croato Franjo Tuđman e quello bosniaco Alija Izetbegović firmarono l’accordo che pose fine alla guerra fratricida che aveva dilaniato la ex Jugoslavia. Un conflitto devastante, che nel corso di quasi quattro anni aveva strappato legami comunitari e perfino familiari su linee di divisione etniche fomentate da una politica criminale.
Da quel trattato di pace, mediato dallo statunitense Richard Holbrooke e passato alla storia come “Accordo di Dayton”, nacque la Bosnia ed Erzegovina come la conosciamo oggi: uno Stato costituito dalle due entità della Federazione croato-musulmana e della Repubblica Serba, che condividono una presidenza collegiale. Nel ruolo di capo dello Stato si alternano un esponente serbo (cristiano ortodosso), uno croato (cattolico) e uno bosgnacco (musulmano), mentre una complessa struttura legislativa vede una rigida suddivisione in quote tra i rappresentanti eletti nel Parlamento unitario. Ma la cessazione della violenza, che ha retto fino a oggi, fu raggiunta su un compromesso doloroso, da molti considerato “sporco”, perché prese atto della situazione sul campo, esito di efferati crimini di guerra, e cristallizzò i confini tracciati col sangue. Per questo, mentre di fronte ai conflitti presenti si ripropone un simile dilemma etico e politico sul perseguimento di una pace il più possibile giusta, è ancora più importante riflettere sulla lezione di Dayton: come dobbiamo giudicare, col senno di poi, le scelte di tre decenni fa?
«Se guardiamo all’obiettivo, cioè il raggiungimento della pace dopo una guerra che in Bosnia ed Erzegovina provocò 100 mila morti e oltre due milioni di sfollati, quell’accordo rappresenta un grande successo», riconosce Denis Džidić, direttore esecutivo della sezione bosniaca di Balkan Investigative Reporting Network (Birn BiH), una rete di ong impegnate nella promozione della libertà di parola e dei valori democratici nella regione. «Da allora non abbiamo più visto alcuna escalation di violenza nell’area: un risultato impensabile in altri contesti simili. Abbiamo due generazioni di ragazzi che sono nati e cresciuti in pace e questo grazie a un compromesso che rappresentò il modo migliore per bilanciare lo scontento delle parti». Džidić tuttavia sottolinea: «Se spostiamo la valutazione sui risultati in termini di democratizzazione e di prospettive di integrazione nell’Unione Europea, allora ci rendiamo conto che da Dayton uscì una forma di Stato del tutto inefficiente, in cui gli attori politici possono bloccare qualunque processo solo in quanto rappresentanti di una certa comunità. Il sistema, infatti, non è basato su diritti di cittadinanza ma etnici, tra l’altro riservati solo a tre gruppi mentre altri, come i rom o gli ebrei, ne sono esclusi».
Una stortura che si riflette in ogni aspetto della vita: «Quando hai una struttura di potere ostaggio dell’etno-nazionalismo, questa è l’unica narrazione al momento del voto. E diventa normale anche il revisionismo storico, così come un sistema scolastico in cui i bambini appartenenti a comunità diverse studiano separatamente. Assorbendo la stessa mentalità di divisione».
Questa, soprattutto, è per il direttore di Birn BiH la lezione da imparare dal post conflitto nei Balcani: «Se qualunque pace è meglio delle armi, la pace “giusta” è quella che si cura di implementare i diritti umani, di promuovere la giustizia di transizione, di provvedere ai bisogni delle vittime». Per poi riuscire a voltare pagina, come collettività. «Per farlo, abbiamo bisogno anche di una pressione della comunità internazionale verso i nostri politici, troppo spesso corrotti, affinché accettino di rinunciare a un pezzo del loro potere per approvare una riforma costituzionale che superi l’attuale modello di Stato: non dimentichiamo che esiste ancora un Alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina, istituito proprio in seno all’Accordo di Dayton. Il nostro obiettivo deve essere l’ingresso nell’Unione Europea, con tutti gli standard ad esso connessi e le relative garanzie di democraticità per la nostra società».
Se l’Europa ha delle responsabilità nel vigilare sul clima socio-politico nei Balcani, il cambiamento deve nascere dal basso, grazie all’impegno di cittadini pronti a uscire dagli steccati etnici. Ne è convinta la professoressa Tatjana Sekulić, che è nata a Sarajevo ma dal 1990 vive in Italia, dove insegna Sociologia dei fenomeni politici all’Università di Milano Bicocca.
«La guerra finì con una pace ingiusta, perché legittimò la strategia della pulizia etnica», premette Sekulić. «Prima del conflitto, infatti, non sarebbe stato possibile dividere il territorio su linee di appartenenza comunitaria, visto che fino al 1992 la popolazione viveva mescolata e, secondo il censimento del ’91, il 50% dei cittadini aveva relazioni di parentela con membri di un diverso gruppo etno-nazionale Solo dopo che furono tracciati nuovi confini di fatto tra aree rese etnicamente omogenee attraverso crimini di guerra e un genocidio, gli attori sul campo accettarono la nuova mappa proposta dalla comunità internazionale». Non solo: «Al tavolo di Dayton si sedettero i principali attori responsabili delle violenze, che infatti in seguito verranno accusati e processati dal tribunale dell’Aja. Fu una scelta dolorosa imposta dalla realpolitik, che comunque – su questo la professoressa concorda – riuscì nell’impresa di porre fine a un conflitto terribile, sebbene ci sarebbe voluto tempo per eliminarne gli strascichi, per demilitarizzare e sminare il territorio».
L’attenzione, secondo Sekulić, va posta oggi su come correggere le conseguenze del modo in cui fu superata la guerra, attraverso la lottizzazione etno-nazionalista. «Una ricerca condotta dalla collega Arianna Piacentini dell’Università di Milano, dedicata alla trasmissione dei valori e delle memorie nelle famiglie sia nella Repubblica Serba sia a Sarajevo, ha rivelato che pochi giovani si dichiarano nazionalisti o esprimono giudizi avversi sull’altro, ma alla domanda se abbiano amici tra i membri di altre comunità etniche la risposta è generalmente negativa. La struttura stessa dello Stato impedisce alle giovani generazioni un contatto quotidiano: ma se a scuola, o nelle attività extrascolastiche o sportive, non hai la possibilità di conoscere, fare amicizia, magari innamorarti di persone che appartengono ad altri gruppi, come possono cambiare le cose? È un circolo vizioso che impedisce la ricostruzione del tessuto sociale strappato negli Anni 90». Proprio a partire da questa provocazione – e in un contesto in cui la mancanza di opportunità qualificate vede un esodo dal Paese dei giovani più istruiti – la professoressa Sekulić ha coordinato alcuni esperimenti sociali in ambito accademico: «Per sei anni – racconta – abbiamo organizzato una scuola estiva sulla cultura della tolleranza che ha coinvolto anche l’Università di Sarajevo e quella della parte Est della città, nella Repubblica Serba, con studenti e docenti misti. C’erano ragazzi di 20 anni che vedevano Sarajevo per la prima volta nella loro vita. Alla fine erano tutti entusiasti».
Un altro progetto significativo è stato il “Glossario dei concetti costituzionali essenziali della BiH”: «Per due anni e mezzo abbiamo lavorato fianco a fianco con colleghi sociologi, costituzionalisti, giuristi, studiosi di Scienze politiche di gruppi etno-nazionali diversi per approfondire gli aspetti più importanti della Costituzione di Dayton. Il testo relativo a ogni tema veniva definito solo quando si trovava un consenso tra gli autori: si è trattato di un piccolo miracolo». Solo questo lavoro paziente e tenace, in cui ognuno accetta di ascoltare la voce e la storia dell’altro, può costruire un futuro diverso nella regione. «Oggi la nostra rete coinvolge un gruppo di giovani accademici che possono portare il loro contributo. Dobbiamo moltiplicare le occasioni di interazione, perché senza un cambiamento dal basso difficilmente anche interventi istituzionali avranno successo».
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