Seminari in Cina, la sfida di accompagnare

Seminari in Cina, la sfida di accompagnare

Missionario del Pime e psicologo, padre Fabio Favata ha dedicato la tesi di dottorato alla formazione dei candidati al sacerdozio nel difficile contesto dei seminari cinesi. Dove calano le vocazioni e restano i controlli, ma si prova comunque a costruire il futuro

Gli scandali legati agli abusi sessuali hanno portato la Chiesa a interrogarsi profondamente, negli ultimi anni, sul tema della formazione umana e affettiva nei seminari. In diverse parti del mondo sono state avviate anche sperimentazioni di modalità diverse per la preparazione al sacerdozio.
Ma come sta affrontando questo tema una realtà del tutto particolare come la Chiesa cattolica in Cina? È il tema – delicato ma estremamente attuale – che padre Fabio Favata, missionario del Pime a Hong Kong, ha avuto modo di approfondire nella sua tesi per il dottorato in psicologia, conseguito presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma. Un lavoro svolto attraverso un confronto diretto, con interviste individuali e test realizzati on line con una trentina di seminaristi e con i loro formatori che vivono in due dei seminari teologici “ufficiali” dove si svolge la formazione dei futuri sacerdoti nella Cina continentale.

Si è trattato di un’esperienza preziosa anche per lo sguardo più generale che ha offerto sui giovani e sulle vocazioni oggi in Cina. Come padre Favata ricorda nella parte introduttiva della sua tesi i seminari sono stati, infatti, uno dei luoghi più significativi della travagliata storia del cattolicesimo cinese, dalla rivoluzione di Mao fino ai giorni nostri: tra gli anni Cinquanta e Sessanta per più di due decenni furono addirittura chiusi dalle autorità comuniste, senza alcuna possibilità di ordinazione di nuovi preti. E anche dopo la loro riapertura nel 1982 non hanno mai mancato di fare pesantemente i conti con condizionamenti di natura politica.

I seminari, però, sono stati anche luoghi dove negli ultimi decenni si sono potuti registrare passi avanti importanti, grazie anche all’opera paziente di tanti missionari che – in Cina, ma anche da fuori – hanno percorso ogni strada possibile per dare una mano. Un nome tra tutti è quello di padre Tommy Murphy, irlandese, missionario di San Colombano scomparso il 6 gennaio scorso, che a lungo e in vari modi ha aiutato le attività di formazione in Cina. E parallelamente anche numerosi seminaristi e sacerdoti cinesi sono stati ospiti per percorsi di studio a Roma e in altri istituti teologici in Occidente, per poi tornare alla fine dei corsi nella propria diocesi.

Il lavoro di padre Favata – che dal 2007 al 2013 ha vissuto a Pechino, studiando psicologia alla Beijing Normal University – si inserisce proprio in questo filone di collaborazione che continua una storia importante per il Pime. «Dal mio maestro padre Giancarlo Politi – racconta – ho imparato che in Cina, se tieni un basso profilo, una strada alla fine si riesce a trovare. E a quel punto si possono fare tante cose».

Certo, anche in Cina oggi i problemi per i seminari non mancano. Primo tra tutti il calo delle vocazioni al sacerdozio: «Se si guarda anche solo i numeri, considerando sia i seminari “ufficiali” sia quelli delle comunità considerate “sotterranee”, dai minori alla teologia, si è passati dai circa 2.400 seminaristi dell’anno 2000 ai 420 stimati nel 2020», spiega padre Favata. È anche questo un volto della politica del figlio unico, la direttiva imposta da Pechino fino a qualche anno fa alle famiglie per ragioni demografiche. Non si tratta, però, dell’unica ragione: «Pesano anche le fatiche nell’esercizio del ministero del sacerdozio in un contesto dove il gap generazionale tra i giovani preti e i confratelli ordinati prima della Rivoluzione culturale è profondo. E dove le pressioni esterne, se in alcuni hanno portato a rafforzare la fede, in altri favoriscono la fuga dal ministero».

Senza dimenticare i cambiamenti che toccano l’essere giovani oggi in Cina, con le nuove opportunità offerte dal mondo digitale, ma anche l’inquietudine di fronte a certe forme di religiosità rimaste ancorate alla tradizione e alle devozioni del cattolicesimo degli anni Cinquanta.
«Anche per questo – continua il missionario del Pime – mi interessava capire quanto il tema della formazione umana e affettiva fosse presente nei seminari di oggi in Cina. E ho scoperto che la consapevolezza dell’importanza di questa sfida c’è. Però deve fare i conti con tante difficoltà concrete: prime tra tutte il sovraffollamento dei seminari e il numero estremamente ridotto di formatori».

Se infatti nelle diocesi di tutto il mondo oggi si avverte sempre più chiara la necessità di percorsi individualizzati, con piccole comunità di giovani che si preparano al sacerdozio con un maggiore contatto diretto con la vita delle parrocchie, in Cina per motivi contingenti si sta seguendo una direzione opposta: i seminari sono pochi e sovraffollati, in una caso si arriva addirittura ad avere nella stessa struttura un centinaio di seminaristi.

Con le restrizioni introdotte con la pandemia (ma poi revocate col contagocce) anche le opportunità di andare a studiare all’estero si sono molto ridotte. Anche il numero dei formatori è risicato e per di più cambiano velocemente. «Il risultato è che non riescono a seguire i giovani candidati al sacerdozio come vorrebbero – spiega Favata -. I formatori sono generosi, sono anche ben consapevoli dei problemi. Per esempio sul tema della formazione umana hanno introdotto dei corsi che affrontano il tema dell’affettività. Ma manca loro una formazione adeguata e possono contare su pochi strumenti.

I seminaristi stessi, poi, fanno fatica a fidarsi: tendono a rimanere chiusi, il che non è per niente un fatto positivo in questo tipo di cammino. Tutto ciò che attiene alla sfera della sessualità resta tabù. A volte, poi, pesano anche le ferite del passato che creano diffidenza tra i diversi gruppi». Proprio per questo, però, diventa ancora più importante oggi non lasciare soli i seminaristi in Cina e i loro formatori. Ed è quanto padre Favata si propone di continuare a fare insistendo su questo aiuto nell’ambito cruciale della formazione umana dei futuri sacerdoti, su cui già lavora con la diocesi di Hong Kong.

«In futuro – racconta – sarebbe importante riuscire a formare in Cina alcuni psicologi cattolici in grado di aiutare i seminari. Ed è prezioso anche il lavoro di mediazione tra la Cina e il mondo esterno che stanno facendo alcuni sacerdoti che negli anni scorsi hanno avuto la possibilità di studiare fuori dal Paese e adesso sono rientrati. L’importante oggi è esserci, nel modo in cui si può. Le crociate non servono a nessuno».


Il “caso Shanghai” e la Giornata di preghiera per la Chiesa in Cina

Nella Festa di Maria Ausiliatrice, venerata nel santuario di Sheshan a Shanghai, si celebra la Giornata di preghiera per la Chiesa in Cina, istituita da Benedetto XVI nel 2007 e confermata da Papa Francesco. L’appuntamento assume quest’anno un significato particolare, dal momento che proprio la diocesi di Shanghai è al centro di un nuovo strappo compiuto da Pechino. Nonostante l’Accordo con la Santa Sede sulla nomina dei vescovi, rinnovato ancora lo scorso ottobre, le autorità cinesi hanno proceduto unilateralmente a trasferire nella più importante sede episcopale vacante monsignor Shen Bin, vescovo di Haimen e presidente del Consiglio dei vescovi cinesi, l’organismo “ufficiale” non riconosciuto dalla Santa Sede. Il Vaticano – riferendo di aver appreso la notizia dai media – non ha voluto commentare. Ma il fatto che Shen Bin abbia anche ha un ruolo politico pesa in un contesto in cui le autorità governano ogni aspetto della vita in Cina.