Papua Nuova Guinea: «Una soluzione per Manus»

Papua Nuova Guinea: «Una soluzione per Manus»

Dopo la sentenza della Corte Suprema che ha dichiarato illegale l’accordo del 2012 con l’Australia per la detenzione dei rifugiati politici sull’isola i due Paesi si rimpallano le responsabilità sui 905 uomini rimasti nell’ex base navale. I vescovi: «Si trovi una soluzione realistica, che salvaguardi la dignità e i diritti umani»

 

La Conferenza episcopale della Papua Nuova Guinea ha salutato con favore in settimana la decisione della Corte Suprema, che il 26 aprile ha dichiarato illegale ed incostituzionale l’accordo con l’Australia per la detenzione di rifugiati politici sulla remota isola di Manus.
L’intesa risale al 2012 quando il partito laburista, quasi certo della sconfitta alle imminenti elezioni politiche australiane, con la promessa di ulteriori investimenti nelle infrastrutture del paese, convinse le autorità di Port Moresby a riaprire una vecchia base navale, che aveva già ospitato i profughi vietnamiti, per scoraggiare l’immigrazione illegale verso il remoto avamposto dell’isola di Christmas al largo delle coste indonesiane. Da allora circa un migliaio di afghani, iraniani, irakeni, tamil dello Sri Lanka ed altri gruppi minori sono stati confinati a Manus con la promessa di essere eventualmente accolti in Papua Nuova Guinea, ma non in Australia. Il governo di Canberra collabora con i canali ufficiali della Nazioni Uniti per l’accoglienza ai rifugiati politici, ma si rifiuta di considerare ogni ipotesi di sbarco imprevisto ed illegale sulle proprie coste.

Con la stessa fermezza però anche le Chiese, le organizzazioni per i diritti umani e la società civile hanno sempre respinto la soluzione Manus come ingiusta e contraddittoria, persino ipocrita. Le possibilità di accoglienza in Papua Nuova Guinea sono nulle a causa della povertà e dell’arretratezza del paese. I rifugiati sono trattenuti a forza (di fatto incarcerati) sul territorio nazionale senza averne in alcun modo violato le leggi e gli interessi.

Ora Papua Nuova Guinea ed Australia si rinfacciano la responsabilità per la decisione ultima sui 905 uomini rimasti a Manus, proprio mentre il governo locale si trova a fronteggiare un vasto fronte di contestazione al primo ministro Peter O’Neill accusato di corruzione amministrativa e prevaricazione a danno degli organi di polizia, che da tempo ne chiedono la messa in stato d’accusa. Gli studenti delle due università statali di Port Moresby e Lae sono già in sciopero, hanno sospeso le lezioni, e lunedì 9 maggio le scuole della capitale saranno chiuse e sfileranno per chiedere le dimissioni di O’Neill.

La tensione nel paese cresce mentre la corruzione diventa sempre più inaccettabile ed aumenta la preoccupazione per le casse dello Stato, che molti temono vicino alla bancarotta anche per il crollo del prezzo del petrolio e i minori guadagni previsti da questo settore di esportazione. Il governo ha tagliato quest’anno 50 milioni di Kina (circa 15 milioni di Euro) dal budget per la sanità destinato alla Chiesa cattolica impegnata soprattutto nelle aree rurali.

In una situazione così difficile il segretario della conferenza episcopale della Papua Nuova Guinea e Isole Salomone, padre Victor Roche, fa appello all’Australia perché trovi una soluzione realistica, che salvaguardi la dignità e i diritti umani dei profughi bloccati da quattro anni a Manus. Inutile scaricare la responsabilità sulla Papua Nuova Guinea qualunque siano stati gli accordi del 2012, per altro conclusi senza alcun dibattito parlamentare ed ora dichiarati incostituzionali.