Marina Tabassum
Architetta bangladese pluripremiata, ha saputo esportare un modello che parte da culture e sfide locali per metterle in dialogo col resto del pianeta e cercare soluzioni a problemi comuni
Progettare edifici per costruire comunità sostenibili. Si potrebbe sintetizzare così la filosofia dell’architetta Marina Tabassum, che ha saputo trasformare le radici culturali e le sfide socio-ambientali del suo Bangladesh in un modello di progettazione innovativo a livello globale. Proprio a lei, originaria di Dhaka dove nel 1995 ha fondato il suo primo studio, è stata affidata quest’anno la realizzazione dell’annuale progetto temporaneo nei Kensington Gardens delle Serpentine Galleries a Londra (lanciato 25 anni fa da Zaha Hadid): uno spazio di incontro e dibattito che resterà aperto al pubblico fino al 26 ottobre.
Per Tabassum l’ennesimo riconoscimento, dopo una serie di premi internazionali tra cui l’Aga Khan Award for Architecture vinto nel 2016, del valore di una visione dell’architettura che parte dalle culture locali, confrontandosi con fattori come il contesto sociale, la storia e il clima, per metterle in dialogo col resto del pianeta e cercare soluzioni a problemi comuni. Obiettivo: migliorare le condizioni di vita di tutte le persone, «con particolare attenzione – ha spiegato lei stessa – alle comunità marginalizzate e a basso e bassissimo reddito». L’opposto del “global architect” che esporta il suo stile in tutto il mondo incurante di luoghi e persone.
Tra gli esempi più significativi di questo approccio, a fianco degli edifici climate-responsive, in grado cioè di adattarsi e di rispondere dinamicamente alle condizioni climatiche, come la Comfort Reverie e la Ar Tower a Dhaka, ci sono progetti realizzati in collaborazione con le stesse comunità locali, come Wisdom of the Land (“La saggezza della terra”), un cortile bangladese presentato alla Biennale di Venezia del 2018. Ma anche la khudi bari (letteralmente “piccola casa”), un modulo abitativo mobile nato in risposta alle esigenze delle popolazioni in diverse località del Bangladesh lambite dai fiumi Padma, Meghna e Jamuna, soggette a periodiche inondazioni e all’erosione delle sponde. Le abitazioni, dalla struttura in bambù e giunti in acciaio, sono resistenti a eventi climatici estremi e possono essere smontate e spostate a seconda delle necessità.
Rispondere ai bisogni delle comunità – non solo pratici: tra i progetti più apprezzati di Tabassum c’è la moschea Bait-ur-Rouf di Dhaka – è la costante del lavoro dell’architetta, che ha spiegato come, per farlo, sia necessario entrare in un’ottica di “ri”: «Ripensare le nostre azioni, ricercare e riconnettersi con le saggezze millenarie per riorientare i nostri modelli di vita riutilizzando, riducendo, riparando, per ristabilire l’equilibrio e ri-assicurare la nostra stessa esistenza».
Chi è?
Nata a Dhaka nel 1969, Marina Tabassum si è formata in Bangladesh, dove nel 1995 ha fondato lo studio Urbana (con Kashef Chowdhury) e dieci anni dopo il Marina Tabassum Architects, con cui realizza progetti che rispondono alle emergenze climatiche e sociali del pianeta. Nel 2016 ha vinto l’Aga Khan Award for Architecture per la progettazione della moschea Bait-ur-Rouf di Dhaka. È stata la prima architetta del Sud-est asiatico a ricevere il Lisbon Triennale Lifetime Achievement Award nel 2022 e ha curato il Serpentine Pavilion 2025 di Londra.
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