Storie di rinascita negli slum di Mumbai
L’ong Lok Seva Sangam, fondata negli anni Settanta da padre Carlo Torriani per la cura della lebbra, oggi si fa carico anche di altre povertà, portando speranza per un futuro migliore
È l’economia in più rapida crescita al mondo e la sua popolazione potrebbe presto arrivare a un miliardo e mezzo di abitanti. Eppure, per certi aspetti, l’India sembra restare sempre uguale a se stessa. A Mumbai, capitale dello Stato indiano del Maharashtra, una delle città più caotiche e inquinate del mondo, i grattacieli crescono senza sosta, mentre le baraccopoli si espandono freneticamente, ingigantite dal continuo afflusso di migranti dalle regioni agricole del Paese. È tra i poveri e i malati di questa megalopoli che da più di cinquant’anni opera l’ong Lok Seva Sangam. Nacque per intuizione di padre Carlo Torriani, che in Italia era stato tra i fondatori di Mani Tese e all’inizio degli anni Settanta aveva iniziato la sua opera diplomandosi in India come operatore sociale per poter lavorare tra i lebbrosi e i malati di tubercolosi negli slum di Mumbai. Oggi a mantenere vivo il legame tra questa realtà indiana e il Pime è padre Mateus, quarantenne originario del Brasile, in India dal 2018. «Era rimasto un gap generazionale – racconta – tra il primo gruppo di missionari che aveva avviato il progetto con le missionarie dell’Immacolata, e quelli arrivati in seguito». Così anche padre Mateus ha frequentato un corso di servizio sociale per poter lavorare all’interno della ong. «Lo stesso master di padre Torriani, a distanza di 50 anni», sottolinea il sacerdote.
La Lok Seva Sangam oggi opera nella baraccopoli di Shivaji Nagar in quattro ambiti: lotta alla lebbra, supporto ai malati di tubercolosi, sostegno all’emancipazione femminile e istruzione dei bambini, quest’ultimo con l’aiuto anche della Fondazione Pime attraverso il Progetto SAD 4052. «Ogni anno ci sono circa 120 nuovi casi di lebbra – spiega padre Mateus – di cui quasi il 10% sono minori». L’ong gestisce un progetto in partnership con l’amministrazione comunale della città di Mumbai: una squadra di volontari e operatori sanitari va di casa in casa per individuare nuovi malati di lebbra e seguirli nelle cure, che durano almeno un anno. «Siamo responsabili di un’area in cui vivono due milioni e mezzo di abitanti», racconta. E a volte qualcuno ancora sfugge ai controlli della municipalità.
È il caso di Saadi Ali Khan, un uomo di 42 anni che è rimasto nascosto nella sua abitazione malato di lebbra per 13 anni. «Ascoltando la sua storia – racconta il sacerdote – abbiamo scoperto che, quando era comparsa un’iniziale atrofizzazione della mano, un medico gli aveva detto che sarebbe stato necessario amputarla. Spaventato, si è chiuso in casa, in un’abitazione di tre metri per cinque, e ha smesso di uscire, aggravando la sua condizione». Con il tempo l’uomo ha perso anche le palpebre e sviluppato una grave disabilità visiva. Alle squadre sanitarie che cercavano i casi infetti di lebbra, la moglie rispondeva sempre che il marito era in realtà paralizzato. «Se i vicini si insospettivano, cambiavano casa», spiega ancora padre Mateus. «Il caso è stato scoperto su insistenza di un’operatrice sanitaria e ora Saadi Ali Khan ha terminato le cure. Quando è venuto alla nostra ong per un’intervista, era la seconda volta che usciva in 13 anni. Era contento di poter semplicemente parlare e prendere il tè con qualcuno, sentirsi come una persona normale».
Grazie alle cure mediche si contano sempre più ex malati di lebbra, che non sono più infettivi, ma presentano disabilità, solitamente in seguito alla perdita delle dita delle mani e dei piedi. «Rispetto al lavoro dei primi tempi, adesso abbiamo aggiunto una serie di nuove attività, tra cui, per esempio, fare in modo che anche i lebbrosi possano lavorare e guadagnarsi da vivere, senza dover contare sull’assistenzialismo».
Anche per il monitoraggio della tubercolosi, la Lok Seva Sangam agisce in supporto alla municipalità di Mumbai. «Una volta trovati i casi, questi vengono schedati e passati all’amministrazione locale, che invia le medicine alle unità di salute sparpagliate in tutto il territorio. Noi abbiamo la responsabilità di assicurare che il paziente continui la terapia, valutiamo la soglia di povertà della famiglia e cerchiamo di capire se l’infezione è accompagnata da una situazione di malnutrizione». Solo nel 2023 l’ong aveva lavorato con circa 2.000 pazienti affetti da tubercolosi.
Gli operatori e i volontari della Lok Seva Sangam vanno di casa in casa anche per promuovere l’emancipazione femminile, un tema ancora molto difficile da affrontare in India. Eppure anche in questo ambito, forse, qualcosa sta cambiando. «Le nostre assistenti iniziano con lo stabilire un rapporto di fiducia fin dalle prime visite», precisa padre Mateus, che oggi ricopre il ruolo di vicedirettore della Lok Seva Sangam. «Nelle visite successive cerchiamo di individuare i problemi delle donne, ma senza dire che ci occupiamo di women empowerment. Spesso i problemi sembrano superficiali: molte donne, per esempio, hanno bisogno di aiuto per compilare certi tipi di documenti, allora noi spieghiamo loro a che cosa hanno diritto. Poi, però, nell’80% dei casi ci parlano anche di violenza domestica», continua il missionario. È la moglie a decidere che misure prendere, anche se spesso molte indiane pensano di non poter fare niente: «Una nostra lavoratrice è stata picchiata perché il marito aveva scoperto che il figlio aveva saltato la scuola per andare a giocare a calcio. Lei ci ha detto che in fondo se le meritava le botte, perché l’educazione dei figli è una sua responsabilità».
Gli operatori della Lok Seva Sangam intervengono in base alle richieste che ricevono da parte delle loro assistite: possono parlare con il marito, chiamarne la famiglia, o aiutare la donna a rivolgersi alla polizia. «La separazione dal marito è rara in India», commenta ancora padre Mateus. Però anche nella baraccopoli di Shivaji Nagar c’è stato qualche caso in cui le violenze erano talmente gravi da richiedere un intervento di questo tipo. «Due operatrici hanno raccontato di aver aiutato una donna a divorziare. È stato uno strumento di liberazione».
L’ong fondata da padre Carlo Torriani ora guarda anche al futuro. Tra i vari progetti è stato inserito un doposcuola per i bambini che ha come obiettivo ridurre la dispersione scolastica. «Molti dei ragazzini che frequentano le nostre attività oggi sono figli di altri abitanti della baraccopoli che avevano partecipato al nostro doposcuola», dice il missionario del Pime. E da una generazione all’altra, qualcosa è cambiato: «All’inizio i bambini ci dicevano di voler fare il lavoro dei genitori, l’autista di tuk tuk, il pescivendolo. Adesso, invece, le famiglie che vivono nella parte vecchia della baraccopoli ci tengono molto di più all’istruzione dei figli, vogliono che vengano al nostro doposcuola perché sperano di riuscire a mandarli all’università e a fare in modo che possano ottenere un lavoro in un ufficio».
Sono persone che ora vivono in case di muratura, mentre i nuovi arrivati nello slum di Mumbai vanno ad abitare in cunicoli con il tetto in lamiera. «Queste famiglie, che vengono perlopiù dagli Stati settentrionali dell’India, il Bihar e l’Uttar Pradesh, sono meno interessate al futuro dei loro bambini. Nelle nostre attività abbiamo inserito il calcio per provare ad agganciare i più piccoli, ma spesso non riusciamo ad andare oltre». Anche chi riesce a emanciparsi dalla baraccopoli fa fatica a liberarsi dello stigma di povertà ed emarginazione. La prospettiva delle nuove generazioni, però, è di migliorare, anche di poco, la loro situazione rispetto a quella dei genitori. «Nella nostra parrocchia c’è una ragazza che lavora in un call center, eppure parla benissimo l’inglese e potrebbe fare molto di più. Quando glielo faccio notare, però, lei mi risponde che è contenta così». Non sembra cambiare niente in India, eppure cambia tutto.
Articoli correlati
Con il Papa per rialzarci
La ricetta del Paese che vogliamo

