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Myanmar, dalle macerie alla speranza

Dopo il sisma che ha devastato il Paese del sud-est asiatico, già piegato da quasi quattro anni di guerra civile, l’ong New Humanity International si è attivata per portare aiuti alla popolazione nelle zone più colpite

Sono ancora ben visibili ovunque le drammatiche conseguenze del catastrofico terremoto che ha colpito il Myanmar il 28 marzo scorso. Oltre 3 mila morti, più di 5 mila feriti, secondo i dati ufficiali comunicati dalla giunta golpista al potere, ma si presume che la cifra sia molto più alta. Per lo US Geological Survey le vittime sarebbero almeno 10 mila. Nelle regioni di Mandalay e del Sagaing interi villaggi sono stati rasi al suolo. «Ormai si stanno spostando le macerie per liberare le strade anziché per cercare i dispersi, che si dà per scontato siano morti», racconta padre José Magro, missionario del Pime e operatore di New Humanity International, ong sostenuta da Fondazione Pime. Il sisma, di magnitudo 7.7, ha colpito un Paese già martoriato da più di quattro anni di guerra civile e da una feroce repressione: la giunta militare, che a febbraio 2021 ha preso il potere con un colpo di Stato, ha bombardato le roccheforti della resistenza pro democrazia anche nelle ore successive alla tragedia.

L’ultimo rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari stimava ci fossero già 3,5 milioni di sfollati prima del terremoto: «Nel Myanmar nordoccidentale, che ospita quasi la metà di tutta la popolazione sfollata del Paese, si è registrato un aumento delle vittime civili, mentre il conflitto continua ad aggravarsi», afferma il documento. È proprio questa regione ad aver subito il maggior numero di danni in seguito al sisma.

Eppure, in mezzo alla devastazione, la speranza si muove a piccoli passi, ricominciando dal cuore di chi, ogni giorno, sceglie di rimanere accanto alla propria gente. Sono stati i ragazzi e le ragazze che frequentano un centro di formazione gestito da New Humanity a Yangon a cucinare il cibo spedito alle vittime sotto le macerie: nella periferia meridionale della città costiera, infatti, l’ong supporta il Dayamit Community College, che si occupa di dare una seconda possibilità ai giovani che hanno abbandonato gli studi a causa di una situazione di povertà alle spalle. Nella maggior parte dei casi svolgono lavori occasionali guadagnando tre euro al giorno, ma al Dayamit frequentano corsi professionalizzanti in previsione di uno stabile inserimento lavorativo. «I giovani che seguono i nostri corsi di cucina si sono messi all’opera per preparare cibo essiccato, non deperibile, da inserire nei kit di soccorso partiti per Mandalay – ha spiegato padre José -. Il passo successivo sarà quello di aiutare le famiglie a ricostruire piano piano anche la loro storia e la loro vita».

I camion di soccorsi per Mandalay sono partiti con acqua, cibo, medicine e pannelli solari. Le connessioni Internet e le comunicazioni, che già erano difficili a causa del conflitto, sono state del tutto interrotte nelle aree colpite. Anche il gasolio è molto richiesto per far funzionare i generatori. «Abbiamo raccolto molte medicine per aiutare i pazienti dell’ospedale di Mandalay che è stato completamente distrutto», spiega il missionario brasiliano. «Alla spedizione hanno preso parte anche un medico e alcune infermiere che da tempo collaborano con noi», ha aggiunto. Alcuni aiuti sono già stati distribuiti grazie alla collaborazione con l’arcidiocesi, che ha subìto danni enormi: «La situazione è peggiore di quanto ci immaginassimo. Le case distrutte sono tantissime, i mercati non ci sono più, le persone non sanno dove stare o dove andare». Una volta preparati i kit, la difficoltà vera è raggiungere la popolazione nelle aree più isolate, «ma ci stiamo riuscendo grazie alla collaborazione di molti amici», ha raccontato padre José.

Le squadre di New Humanity sono intervenute fin dai primi giorni anche nella zona del lago Inle, nello Stato Shan. Secondo le prime stime, sono crollate migliaia di case costruite su palafitte, mentre altre 300 risultano gravemente danneggiate. La regione – prima della guerra una nota meta turistica – aveva già sofferto le conseguenze del tifone Yagi a settembre dello scorso anno.

«Ora siamo accolti in monasteri, scuole e capanne di fortuna su isole galleggianti», hanno raccontato alcuni residenti locali dopo il sisma. Intorno al lago Inle abita la popolazione di etnia intha (una delle 135 minoranze ufficialmente riconosciute dal governo birmano), il cui sostentamento dipende dalle acque del lago, dove si pesca con nasse coniche manovrando le proprie canoe tramite un remo stretto intorno alla gamba.

Nel frattempo l’esercito birmano ha mostrato totale disinteresse nei confronti delle vittime del terremoto, continuando a combattere, ma anche ostacolando l’invio di aiuti umanitari. Ai turisti e ai reporter stranieri è stato vietato l’ingresso nel Paese, mentre i giornalisti locali erano già stati espulsi poco dopo il golpe del 2021. Le poche testimonianze che sono trapelate hanno denunciato situazioni disumane: «Una residente di Mandalay racconta che i soldati del regime hanno sequestrato tutte le ruspe dal suo quartiere sotto la minaccia delle armi, senza lasciare alcuna attrezzatura per salvare i bambini intrappolati sotto le macerie», ha scritto per esempio sui propri social il giornalista Yan Naing Aung. Non è una novità: già in occasione del tifone Yagi, ma anche a giugno 2023, dopo il passaggio del ciclone Mocha, che aveva devastato lo Stato occidentale del Rakhine, gli aiuti erano stati bloccati nel tentativo di ricattare la popolazione e ottenere vantaggi nello scontro con le milizie etniche che nell’ultimo anno hanno riconquistato diversi territori, soprattutto lungo le aree di frontiera, mentre i militari mantengono il potere in alcune grandi città nelle zone centrali del Myanmar.

«È come sparare a un ferito», commenta madre Valen­tina Pozzi, superiora generale delle suore della Ripara­zione, un istituto fondato dal missionario del Pime padre Carlo Salerio e da madre Carolina Orsenigo. La congregazione oggi conta 458 consorelle birmane e decine di conventi in tutto il Myanmar, anche se molti erano già stati evacuati a causa dei combattimenti. «È un miracolo che tra di noi non ci siano vittime – continua la religiosa -. Le case e gli edifici verranno ricostruiti, ma intanto penso ai bambini del Myanmar che avranno moltissime ferite da guarire», dice ancora la religiosa.

Anche l’arcivescovo di Manda­lay, monsignor Marco Tin Win, ha rivolto una preghiera ai più piccoli: «La casa per il clero della diocesi è andata distrutta e i sacerdoti stanno dormendo per terra all’aperto con le persone. I bambini sono sotto shock. Molte persone stanno disperatamente cercando i familiari scomparsi». Ma alle squadre di soccorso, spiega ancora il prelato, hanno partecipato persone di tutte le fedi religiose del Myanmar: cristiani, buddhisti, che hanno perso centinaia di templi storici, e musulmani, tra cui molti si trovavano in moschea al momento del terremoto, avvenuto durante l’ultimo venerdì del Ramadan. «Non ci facciamo illusioni, sarà un lavoro lungo – conclude padre José -. Ma intanto ringraziamo chiunque, anche dall’Italia, ci sta dando una mano».

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