AL DI LA’ DEL MEKONG
Trump e la Cambogia

Trump e la Cambogia

Dall’Asia qualche dettaglio per l’agenda del nuovo presidente degli Stati Uniti. Può un leader mondiale preoccuparsi di questioni «piccole»?

 

Donald Trump è il nuovo presidente degli Stati Uniti. In queste ore si moltiplicano i commenti e le analisi sulle future strategie del nuovo inquilino della Casa Bianca e se da una parte è normale, dall’altra temo che il fiume di parole ci faccia perdere di vista il necessario pragmatismo senza il quale ben poco cambierà, tanto più in Cambogia.

Potrebbe dunque aver ragione Ou Virak, analista politico cambogiano, quando dice che “la Cambogia non rappresenta alcun interesse strategico per l’America” e che poco cambierà. Ma non siamo del tutto sicuri. Il sud-est asiatico, come negli anni 60 e 70 del secolo scorso, rimane un territorio importante. Collocato sotto il gigante cinese, rappresenta una zona contesa nella quale si misura l’effettiva potenza dei soliti grandi della terra Stati Uniti, Cina, Russia, in primis. L’attuale partita giocata per il controllo del Mar Cinese Meridionale, per esempio, dà la misura della posta in gioco. Di fronte alla crescente assertività di Pechino per il controllo di quell’enorme area marittima, gli Stati Uniti stanno cercando una partnership inedita e già avviata con il Vietnam che non tollera le mire espansionistiche cinesi. Nel 2014, infatti, Washinton ha in parte revocato il bando per la vendita di armi al regime di Hanoi. La sorprendente amicizia tra Pechino e Manila con il presidente Rodrigo Duterte, allo stesso modo, rimette ulteriormente in discussione gli equilibri all’interno dell’Asean (l’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico) e tutti sanno che se c’è “più USA” nella regione del sud-est asiatico significa automaticamente “meno Cina” (1). A mio avviso assisteremo alla gara tra le super potenze di sempre per assicurarsi l’appoggio di Paesi come la Cambogia o le Filippine o il Myanmar, nel tentativo di guadagnare l’influenza necessaria ai soliti grandi per essere leader mondiali. Si tratterà di appoggio economico o di consulenza strategico militare, peraltro tutto già in atto, pianificata prima e al di là dell’ultimo risultato elettorale.

In ogni modo la vittoria di Trump ha ulteriormente diviso la Cambogia. Hun Sen, primo ministro e leader indiscusso del CPP (il Cambodian People Party), ha salutato l’elezione del miliardario americano con grande enfasi e approvazione. Stanco del criticismo delle passate amministrazioni americane, Hun Sen apprezza di Trump il carattere autoritario e a tratti imprevedibile, che niente ha a che fare con il “politicamente corretto” di certo perbenismo europeo o d’oltre oceano, pronto a criticare i regimi che non tutelano i diritti umani, per poi utilizzare milioni di dollari in “aiuto” pur di assicurarsi la necessaria influenza politica sulle vaste e più deboli aree del pianeta. Di diverso umore è invece l’opposizione cambogiana (il Cambodia National Rescue Party) il cui presidente Sam Rainsy non ha esitato a definire Trump uno “che sembra credere solo al potere assoluto del denaro”, molto poco democratico, dal cattivo temperamento e pericoloso per la pace mondiale. “Hun Sen e Trump – ha continuato Sam Rainsy – possono essere considerati politicamente cugini”. Sok Eysan, portavoce del partito di governo, guarda con favore a Trump perché è più preoccupato di dare stabilità agli Stati Uniti che ad occuparsi di democrazia o diritti umani altrove. E ritiene che l’astio dell’opposizione cambogiana, in particolare il suo presidente Mr. Rainsy, verso Trump, giochi a favore di una positiva relazione tra Hun Sen e il magnate americano. Lo scorso luglio Sam Rainsy era presente a Filadelfia per l’investitura ufficiale di Hillary Clinton nella corsa alla Casa Bianca, mentre ora con la vittoria di Trump dovrà recuperarne la simpatia. Tra gli esponenti dell’opposizione c’è anche chi è più ottimista. È il caso di Kem Monovithya, figlia di Kem Sokha co-leader dell’opposizione insieme a Sam Rainsy, per la quale l’obiettivo della politica estera americana è sempre stato quello di promuovere gli interessi e i valori degli Stati Uniti e quindi ritiene che una reale democrazia in Cambogia sia più consona agli interessi americani nell’area. “Sia Trump che Clinton avrebbero perseguito lo stesso processo democratico”. Ora tocca a Trump.

Nel senato americano, il partito cambogiano di opposizione ha sempre avuto qualche buon alleato. Nel 2007 Kem Sokha, co-leader dell’opposizione, fondò il CCHR (Cambodia Center for Human Rights) proprio con l’aiuto economico di USAID, molto probabilmente ottenuto grazie all’intercessione di Mitch McConell, attuale leader della maggioranza repubblicana in senato.

Al di là delle analisi generali sull’esito del voto americano, considerato un atto di protesta interno, frutto della scontentezza più che della ragionevolezza, quel che è possibile fare subito per la Cambogia è intervenire con la forza dell’accordo economico. Perché gli Stati Uniti, per esempio, sono il mercato più importante per l’industria tessile, settore nevralgico dell’economia e delle esportazioni cambogiane. Sono circa 600 le imprese conosciute e registrate, ma il numero è approssimativo per difetto dal momento che esistono numerose piccole imprese che lavorano all’ombra delle grandi. E circa 500.000 le persone impiegate, ma anche in questo caso il dato è approssimativo per difetto. Spesso sono donne, ragazze minorenni che fanno carte false pur di avere il lavoro per un salario medio di 150/200 dollari americani. Il 36% della produzione viene esportata negli Stati Uniti mentre un complessivo 39% viene destinato al mercato europeo. Gli Stati Uniti di Trump sono quindi partner commerciali imprescindibili per l’industria tessile di questo piccolo paese del sud-est asiatico.

Si potrebbero individuare obiettivi umani prima che politici. A breve e lungo termine il Paese avrebbe bisogno non di retorica, democratica o filantropica, quanto di un vero e proprio intervento nel settore del tessile e affini, per assicurare salari e condizioni di lavoro umani. Sono tanto pro-life in America, ma non sanno che molte delle donne impiegate nel tessile sono costrette ad abortire per non perdere il posto di lavoro. In questi ultimi mesi si sono succeduti molti episodi di svenimento da eccessivo lavoro. Lo scorso 2 novembre, 139 persone presso la Wing Star Shoes Factory, azienda che lavora per conto del marchio Asics, sono svenute in massa. Lo scorso agosto è toccato invece ad altre 49 persone presso la Ly Chlang Factory di Kompong Cham. Nella stessa ditta in due occasioni precedenti altri 80 lavoratori prima, e 60 dopo, sono svenuti per sfinimento, eccesso di ore di lavoro, insufficiente alimentazione. Inizialmente, dopo l’episodio occorso nella Wing Star Factory, nella pagina Facebook del NSSF (National Social Security Fund che dipende dal Ministero del Lavoro cambogiano) si leggeva che la causa dello svenimento era da attribuire agli spiriti. Corretto successivamente, ha lasciato un impressione di incertezza e incredulità.

Nell’agenda di Trump potrebbe esserci un uso “sociale” degli interessi economici americani a vantaggio di uno sviluppo reale dei Paesi dove l’America ha un’indubbia influenza. Perché in Cambogia prima o poi svenire significherà svanire. Senza un simile e umano pragmatismo, tutti i commenti di questi giorni rischiano di riempire solo i giornali ma non il futuro di milioni di persone. Può un leader mondiale preoccuparsi di questioni così piccole?

 

  1. Cfr. Nguyen Vu Tung, Asean più Usa=meno Cina, in Il Vietnam fra Cina e Usa, Limes 8/2015.