La ricetta del Paese che vogliamo
Parla la co-fondatrice di Nation Station: una cucina comunitaria creata in una ex stazione di servizio e diventata un progetto di sviluppo al servizio del quartiere. Guarda anche la puntata di Finis Terrae o ascolta la prima puntata del nuovo podcast “Taccuini del mondo”
Nel cuore del pittoresco quartiere di Achrafieh, a un piccolo crocevia dell’area residenziale di Geitawi, c’è un locale dai muri colorati che assomiglia a una delle tante caffetterie di questa zona di Beirut. Tra i tavolini del cortile alberato, però, si nota un via vai di clienti un po’ speciali: le persone, infatti, si mettono in coda portando con sé contenitori alimentari vuoti, che quando si allontanano sono stati colmati di cibo caldo e dall’aroma invitante.
Benvenuti a Nation Station, dove la cucina è al servizio della comunità: dei bisogni materiali dei residenti più vulnerabili ma anche della voglia dei giovani di costruire un modello di convivenza dove ci sia spazio per tutti. «Il nostro progetto è nato subito dopo l’esplosione al porto di Beirut, che ha investito in pieno la zona», racconta Josephine Abou Abdo, food designer 35enne che è stata tra i fondatori di questa iniziativa umanitaria trasformatasi col tempo anche in un esperimento culturale.
«Nei primi giorni di emergenza, con un gruppo di vicini abbiamo avuto la reazione spontanea di fare qualcosa insieme per il quartiere – ricorda Josephine -. Così ci siamo ritrovati in questo edificio, che era una stazione di servizio abbandonata, e l’abbiamo trasformato in un luogo di incontro per sostenerci a vicenda. Abbiamo ripulito tutto dalle macerie, portato frutta e verdura da distribuire alla gente e poi abbiamo cominciato a cucinare. Non avevamo programmato niente, ma presto abbiamo sperimentato un enorme supporto da parte di amici, familiari o persone che semplicemente passavano di qua e decidevano di entrare per dare una mano». A quel punto, il progetto ha iniziato a prendere forma. «Abbiamo cominciato a registrare i beneficiari e siccome avevamo avuto delle forniture alimentari abbiamo messo in piedi un sistema di distribuzione di acqua e cibo, visto che non c’erano supermercati o panetterie aperti: tutti gli edifici erano in pessime condizioni».
Per il vicinato, in realtà, si trattava dell’ennesimo colpo in un contesto già in difficoltà: «A Geitawi, dove l’80% dei residenti è costituito da anziani, le infrastrutture erano da tempo deteriorate – racconta l’attivista -. In tutto il Libano, poi, era un periodo in cui stavamo soffrendo per il Covid, oltre che per una crisi economica pesante e una situazione politica molto complicata. Tutto questo ci ha spinti a metterci in gioco per provare a creare un’alternativa. Si è trattato di un’iniziativa dal basso, senza la spinta di alcun partito politico o gruppo religioso, e inclusiva: tutti erano i benvenuti. Ecco perché per il nome, oltre a richiamare con la parola “stazione” l’origine di questo posto, abbiamo scelto anche il termine “nazione”: un’allusione al Paese che vorremmo, unito in alcuni valori fondanti e insieme tollerante e aperto al cambiamento».
Viste le premesse, non sorprende che un po’ alla volta il progetto sia cresciuto. Josephine mi mostra gli spazi di quello che un tempo era il lavaggio auto: «L’abbiamo trasformato in una cucina comunitaria grazie alla quale, fin dall’inizio, abbiamo distribuito dai due ai trecento pasti al giorno». Attualmente le distribuzioni sono tre a settimana: le persone vengono e portano a casa le scorte. E siccome la situazione economica dei libanesi si è deteriorata sempre di più, la coda sotto l’insegna dalle tinte vivaci non manca mai. Grazie anche a donazioni, finanziamenti di progetti e crowdfunding, in questi anni i giovani di Nation Station sono stati in prima linea in tutti i momenti di emergenza, a cominciare dal conflitto con Israele che l’anno scorso ha provocato uno sfollamento di massa dalle regioni bersagliate dai bombardamenti. «Qui a Beirut sono arrivati più o meno 300 mila sfollati, così ci siamo mobilitati per fornire i pasti alle famiglie che si erano sistemate nei dintorni, circa 4.000 persone».
Fin dall’inizio, tuttavia, l’idea era andare oltre la beneficenza: «Il nostro obiettivo – spiega la food designer – resta far crescere il quartiere e renderlo protagonista. Per questo abbiamo cominciato ad assumere residenti per cucinare per i propri vicini, e cerchiamo di fare capire ai beneficiari che questo posto è anche loro».
Il calo generalizzato delle donazioni è stato poi la spinta per inventarsi attività generatrici di reddito: «Per rendere sostenibile la nostra iniziativa abbiamo cominciato a fornire servizi di catering e a vendere quotidianamente, a prezzi abbordabili, dolci e pietanze», spiega Josephine mostrandomi il pentolone fumante del piatto del giorno: dawood basha, a base di polpette in umido. Di sera, poi, il cortile della ex stazione di servizio si anima spesso per gli aperitivi dedicati alla gastronomia di diverse aree del mondo: sotto i fili di lampadine colorate gruppi di giovani si ritrovano per stare insieme e condividere idee e progetti.
La (lunga) stagione estiva vede anche un interessante programma culturale, fatto di proiezioni cinematografiche e concerti di talenti locali. «Il nostro movimento è partito dal cibo, ma si tratta di un mezzo per creare un confronto. Una formula che ci piacerebbe replicare anche in altre parti del Libano». E, a ben guardare, anche un modello in piccolo di ciò che potrebbe essere il Paese: «Esattamente. Una nazione basata su democrazia, trasparenza, inclusività, che rappresenti uno spazio sicuro per tutti e non sia ostaggio di blocchi politici, religiosi, istituzionali contrapposti».
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