Accanto agli ultimi, aperti al mondo

A cento anni dalla nascita del fondatore don Oreste Benzi, il carisma della Comunità Papa Giovanni XXIII resta lo stesso: vicinanza ai più bisognosi e impegno per la pace. Parla il responsabile Matteo Fadda
Il 2025 sarà un anno particolare per Matteo Fadda e sua moglie Carla: festeggeranno i vent’anni di appartenenza alla Comunità Papa Giovanni XXIII (APG23), proprio negli stessi mesi in cui si promuovono una serie di iniziative per celebrare il centenario della nascita di don Oreste Benzi, che l’ha fondata. Matteo – che dal 2023 è il nuovo responsabile generale di APG23 – e Carla hanno entrambi 52 anni, sono sposati dal 1999, hanno quattro figli di età compresa fra i 23 e i 16 anni. Vivono a San Giorgio Canavese, un paese alle porte di Torino, in una casa famiglia nella quale, fra gli altri, è accolta una ragazza di 21 anni, arrivata dal Ghana grazie ai corridoi umanitari.
Le case famiglia sono una delle intuizioni profetiche della Comunità Papa Giovanni. Cos’è cambiato nel tempo?
«Quando partivamo per le missioni quarant’anni fa, la nostra priorità era aprire case famiglia; oggi il panorama si evolve. Di recente, ad esempio, abbiamo fondato una missione in Romania, con tre giovani (due ragazze, una delle quali sotto i 30 anni), impegnati nell’attività di strada, in un quartiere di Bucarest a lungo famoso per i bambini che vivevano sottoterra. Oggi i ragazzi sono “riemersi”, ma vivono in case non abitabili e soffrono spesso di dipendenze».
C’è una fedeltà originaria al carisma, però poi cambiano le forme…
«La casa famiglia continua a essere una proposta valida, l’ho visto di persona anche recentemente in Bangladesh. Perdonate il gioco di parole, ma “fare famiglia” è un concetto “familiare” ovunque, sebbene poi cambino la tipologia e il modo concreto di viverla».
La Comunità Papa Giovanni XXIII si sente missionaria?
«Siamo un movimento carismatico che raccoglie il mandato dei Papi: prima Giovanni Paolo II, poi Benedetto XVI, adesso Papa Francesco ci chiedono proprio di incarnare lo spirito missionario. Più di quarant’anni fa ormai è stato colto questo aspetto come una delle dimensioni del carisma: non soltanto l’accoglienza degli ultimi, ma la spinta a partire, come risposta al fatto che la stragrande maggioranza della popolazione mondiale sopravvive con pochissimo, mentre pochi vivono tra eccessi e spreco. La prima nostra presenza extraeuropea è stata in Africa, dove le nostre missioni sono state avviate raccogliendo bambini disabili, molti dei quali denutriti. Da lì sono nati anche l’idea di investire sulla nutrizione e il progetto Rainbow, ancora oggi attivo in Africa, e così via. La spinta missionaria, dopo l’Africa, ha poi toccato il Sudamerica e l’Asia: oggi siamo circa duemila persone, presenti in 42 Paesi, nei diversi continenti».
A seconda dei contesti in cui il carisma nato da don Benzi mette radici l’esperienza assume “coloriture” locali specifiche?
«Esiste – inutile negarlo – il rischio di essere eurocentrici, di continuare anche involontariamente a portare avanti comportamenti da colonizzatori. Su questo stiamo lavorando. Un anno fa abbiamo indetto un piccolo sinodo interno; uno dei problemi centrali è proprio l’inculturazione, che deve avere due polmoni, un movimento dal centro alla periferia e viceversa».
L’apertura internazionale vi ha portato a misurarvi con il dramma delle guerre e l’impegno per la pace. Operazione Colomba è, tra le iniziative pacifiste, una delle più originali e ambiziose…
«Operazione Colomba nasce nel 1992, durante la guerra in Jugoslavia, nel solco del desiderio di don Oreste di trovare un modo per costruire la pace come realtà stabile e non una pausa tra l’ultima guerra e la successiva. In Italia si è passati dal Ministero della guerra a quello della difesa; oggi è tempo di passare al Ministero della pace. La Papa Giovanni XXIII, già molti anni fa, ha intercettato gli obiettori di coscienza; dopo di che è nata la proposta di voler condividere la vita con gli ultimi, anche con chi sta sotto le bombe. Per noi la condivisione diretta di vita vuol dire sporcarsi le mani e vivere accanto ai più deboli, con lo stile della non violenza, senza prendere le parti di nessuno, cercando quindi di mantenere non un’equidistanza, ma un’equivicinanza. La cosa interessante è che questa proposta è uscita dal contesto cattolico».
Cioè?
«Non è rimasta patrimonio dei giovani delle parrocchie o dei movimenti, anzi: oggi Operazione Colomba è molto più partecipata da giovani in ricerca, spesso anche critici nei confronti della Chiesa. Giovani che sposano l’idea di difendere i diritti umani e di mettersi – come corpo civile di pace – a scudo degli indifesi. È una scelta che va al di là dell’appartenenza religiosa, anche se noi viviamo tutto questo con uno stile di fede. Operazione Colomba è una realtà della Comunità che intercetta giovani con un’età media molto bassa, tra i 18 e i 25 anni, ai quali si aggiungono ultraquarantenni, che garantiscono una continuità di esperienza. Ovviamente, c’è un importante lavoro di formazione, perché per poter andare nei contesti di guerra bisogna seguire un metodo e mostrare di saper lavorare in gruppo, lasciandosi guidare da chi ha più esperienza».
Dov’è attiva oggi Operazione Colomba?
«Siamo presenti in sei luoghi di conflitto: in Ucraina, nel Sud, a Mykolaïv, in Libano, accanto ai profughi siriani, in Palestina, in Grecia nei pressi dei campi profughi, nel Sud del Cile, a difesa delle comunità mapuche, e in Colombia presso la Comunità di Pace di San José de Apartadó. Sono tutti luoghi nei quali si rischia la vita: qualche mese fa, due membri della Comunità di pace sono stati assassinati dai paramilitari. Oltre a essere sul campo, Operazione Colomba lavora per rimuovere le cause che generano le situazioni di tensione. Lo facciamo portando la voce degli ultimi e la testimonianza dei volontari nelle stanze dei bottoni. Organizziamo tour mirati in Italia per sensibilizzare la popolazione e i politici. Lo scopo? Affermare che un’alternativa alla guerra è possibile, se sostenuta con convinzione».
Che cosa vi fa andare avanti, nonostante tutto, anche quando la situazione peggiora?
«Coloro che sono impegnati sul campo risponderebbero: “Le persone con le quali condividiamo la vita”. Un esempio: quando è avvenuta l’invasione di Gaza molti ex volontari sono stati malissimo, perché hanno amici sia tra i palestinesi che fra gli israeliani. Puoi essere distante fisicamente, ma non lo sei col cuore, perché sei “tirato in mezzo” da messaggini, video, vocali… C’è un coinvolgimento tale che ti senti profondamente legato a quelle persone. Questo è il motivo per cui, anche se a molti sembra che la guerra sia imprescindibile, noi non riusciamo a guardare da un’altra parte. Ci sentiamo profondamente legati alle persone che abbiamo incontrato e vogliamo continuare a fare il nostro pezzettino di bene, anche se appare come una goccia nel mare. Perché quella goccia magari è una vita salvata».
Quanto dura il periodo in missione di chi fa parte di Operazione Colomba?
«I nostri volontari stanno sul campo per un periodo limitato e poi rientrano in Italia. Quelli “storici” fanno anche sei mesi, ma il periodo medio di un volontario è più breve. Si tratta di un’esperienza molto forte e con una certa dose di rischio. Come Comunità, l’impegno di Operazione Colomba ci spinge a riproporre il tema della pace ovunque possiamo, anche promuovendo un incontro di preghiera o un rosario in parrocchia».
Non vi basta la preghiera per la pace, però…
«Come ong siamo impegnati presso l’Onu a Ginevra, attivi nel dialogo con i vertici delle Chiese locali oppure con le alte cariche dello Stato, laddove siamo coinvolti. Siamo sempre pronti a collaborare, mantenendo la nostra identità. Un esempio? Quando la diplomazia ci ha chiesto, pochi mesi fa, di uscire dalla Palestina, abbiamo risposto obbedendo, per ragioni di sicurezza. Ma facendo presente il nostro desiderio di rientrare prima possibile. Per continuare a offrire un servizio che consideriamo prezioso perché punta a tutelare i diritti delle persone, che altrimenti vengono calpestati».
INNAMORATO DI DIO E DELL’UOMO
Nato a Rimini il 7 settembre 1925, don Oreste Benzi è stato definito in tanti modi: prete degli ultimi, parroco dalla tonaca lisa, martire della carità, il santo degli umili. Il suo motto: «Non seppellitevi nelle vostre scarpe, andate sempre oltre voi stessi».
Nel centenario della sua nascita sono molte le iniziative in programma per ricordare la sua figura e il suo carisma. È possibile trovarle tutte sul sito: fondazionedonorestebenzi.org
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