Io, sacerdote russo, che ho detto “no” a Putin

In dissenso con le posizioni pro Cremlino, padre Athanase Bukin ha lasciato il Patriarcato di Mosca e vive in esilio: «Molti temono di esporsi». Guarda anche la puntata di FINIS TERRAE
«Una volta, quando mi trovavo a Gerusalemme come membro della Missione ecclesiastica russa, sono arrivato a nascondermi in bagno per evitare di partecipare alla preghiera in occasione del compleanno di Putin… A quel punto ho capito che non potevo più continuare così e che dovevo prendere posizione apertamente contro l’invasione dell’Ucraina». Padre Athanase Bukin, giovane ieromonaco originario di San Pietroburgo, è uno dei volti della dissidenza all’interno della Chiesa ortodossa che fa capo al Patriarcato di Mosca. Un’istituzione che, fin dall’inizio della guerra, si è schierata con decisione al fianco del Cremlino. A cominciare dai suoi vertici: il patriarca Kirill ha più volte espresso il proprio supporto alla “operazione militare speciale” in nome della lotta alla corruzione morale dell’Occidente. Ma anche – notoriamente – di un legame più terreno che spirituale, fatto di scambi e vantaggi reciproci nei confronti del potere.
Eppure, non tutta la Chiesa ortodossa russa si riconosce in queste posizioni. Se già nel marzo 2022 trecento chierici firmarono una lettera aperta per chiedere la fine di un atto che definivano “fratricida”, in questi anni diversi sacerdoti hanno pagato con la sospensione dal ministero, e persino con il carcere, la loro opposizione all’aggressione in Ucraina. Padre Athanase, oggi 36 anni, brillante studioso di Ecclesiologia formatosi all’Accademia teologica di San Pietroburgo, dopo la sua decisione di lasciare Gerusalemme – dove ha operato dal 2019 fino al febbraio del 2023 – è fuggito all’estero: prima in Turchia e poi in Belgio, dove vive attualmente: «Sono stato ospitato dalla comunità ecumenica di Chevetogne e sto preparando la tesi di dottorato all’Università cattolica di Lovanio su sant’Agostino», racconta. Intanto, il Patriarcato di Mosca lo ha espulso e lo ha ridotto allo stato laicale.
Reverendo Athanase, come è arrivato alla scelta dolorosa di abbandonare la sua Chiesa?
«Al momento dell’invasione dell’Ucraina lavoravo come interprete della Missione ecclesiastica. Come russo, ero consapevole che una cosa del genere sarebbe potuta succedere, ma quando è capitato davvero sono rimasto devastato. All’inizio mi sono preso un po’ di tempo per riflettere, ma presto mi sono reso conto che quasi tutti i membri della Missione erano a favore della guerra e mi sono trovato in una situazione per me intollerabile. Anche perché, nel mio ruolo di interprete, dovevo spesso tradurre non solo esponenti religiosi ma anche rappresentanti dello Stato, come l’ambasciatore russo, che facevano discorsi a mio giudizio inaccettabili per qualunque cristiano. In più, io ero un prete, e non potevo separare me stesso da ciò che traducevo: per me è diventato un dilemma etico. Avevo paura di oppormi apertamente ma alla fine, anche con il supporto di alcuni amici, ho maturato la decisione di lasciare un’Istituzione in cui non potevo più riconoscermi».
Quando se ne andò, qualcuno cercò di farle cambiare idea?
«Monsignor Silouan, il rettore dell’Accademia teologica che avevo frequentato, mi chiamò prima dell’udienza del tribunale diocesano a cui avevo accettato di partecipare, offrendomi di risolvere la situazione “dietro le quinte”: “Sai – mi disse – probabilmente hai trascorso troppi anni fuori dalla Russia, non capisci ciò che succede qui…”. Gli ho risposto: “È vero, sono stato all’estero, ma lei mi conosce, sa che comprendo le cose, non cerchi di farmi passare per matto”. E ho deciso di non rientrare».
La Chiesa in Russia ha sofferto moltissimo sotto il comunismo: come è possibile che il Patriarcato oggi sostenga un regime che rivaluta Stalin e l’era sovietica?
«Non è solo un problema della Chiesa, ma di tutta la popolazione. I russi non si sono riconciliati con il loro passato se non molto parzialmente. Dopo la caduta dell’Urss, molti archivi statali e del Kgb furono aperti, ma presto furono richiusi, diversamente da ciò che avvenne in Germania dopo il nazismo. Tutti i tedeschi hanno affrontato quel periodo, anche a costo di ammettere che i loro nonni commisero gravi crimini.
In Russia, nonostante la creazione di alcuni musei dei gulag, questa presa di coscienza non è mai avvenuta su larga scala. E così la società, inclusa la Chiesa, vive un “doppio pensiero”: veneriamo i martiri del comunismo, eppure si dice che Stalin ha fatto anche cose buone… E poi entra in gioco la negazione dei fatti. Ricordo un colloquio surreale con un sacerdote che sosteneva che “Arcipelago Gulag” di Solženicyn fosse un ammasso di bugie…».
Capita anche tra chi ha studiato?
«Questo è un tema importante. Da una parte, nonostante il mito dell’eccellente istruzione sovietica, che in effetti formava ottimi fisici e matematici, essa era e resta molto carente sul fronte degli studi umanistici e storici, in particolare sul periodo sovietico. Per conoscere alcuni fatti bisogna leggere ricercatori non russi, e in tanti non hanno questa opportunità. Inoltre, se nelle grandi città le persone conoscono le lingue e hanno qualche occasione di interazione con l’estero, nei piccoli villaggi, per esempio nell’estremo Nord del Paese, la gente semplicemente ignora un sacco di cose. È disconnessa dal mondo, conosce ciò che vede alla televisione, senza contare che non ha abbastanza soldi e tempo per pensare a cose complicate, perché è impegnata a sopravvivere».
E il regime se ne approfitta…
«In queste zone povere e periferiche lo Stato russo compera letteralmente le persone per mandarle a combattere in Ucraina: la gente si arruola perché non ha mai visto in vita sua tanto denaro come quello che gli viene offerto, non pensa al fatto che dovrà uccidere qualcuno ma segue la propaganda, si dice che sta andando a difendere il proprio popolo. Un meccanismo mentale che, in realtà, si osserva anche all’interno dell’élite, tra i cittadini istruiti: se è vero che molti hanno paura a esporsi, tanti altri hanno semplicemente deciso di credere alla propaganda e di rifiutare qualunque altro punto di vista. Così, se tu dici loro: “Ma non avete visto i massacri compiuti a Buča, o a Irpin?!”, loro rispondono che sono tutte fake news dell’Occidente. Perché, se queste cose fossero vere, dovrebbero ammettere di essere delle cattive persone».
Ma esiste un dissenso, in particolare all’interno della Chiesa?
«Sì, c’è una fetta importante di cristiani che si oppone alla violenza, persone che non possono lasciare la Russia ma che non vogliono avere questo peso sulla coscienza e cercano di opporsi come possibile. Ci sono religiosi che organizzano incontri e preghiere on line, o che cercano di parlare ai fedeli in un modo che sia eloquente ma allo stesso tempo non metta in pericolo loro stessi e le proprie famiglie. Il punto è che oggi in Russia nessuno sa che cosa verrà tollerato dal regime e che cosa no: regna l’arbitrio e con esso il terrore».
Lei spera ancora che la Chiesa ortodossa russa possa riscattarsi?
«Devo ammettere che la mia speranza sta declinando ogni giorno di più. So che ci sono tanti bravi cristiani tra i fedeli e anche tra il clero, ma sinceramente questa Chiesa, intesa come istituzione gerarchica, è diventata così corrotta che non sono sicuro che potrà sopravvivere, o debba farlo. Ma se, quando tutto questo finirà, l’Istituzione dovesse crollare, la Chiesa come comunità resisterà e potremo ricominciare da lì. Stiamo attraversando un momento di grande dolore e faccio fatica a immaginarmi il futuro, anche dal punto di vista politico. Personalmente, nonostante tutto continuo a sentirmi un cristiano, un sacerdote e anche un ortodosso. Oggi, tuttavia, vivo con più forza la vocazione all’ecumenismo, nell’unità. Come dice san Paolo nella lettera ai Galati: i cristiani divisi devono portare “i pesi gli uni degli altri”».
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