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Deportati

Gli Stati Uniti hanno cominciato a trasferire migranti e richiedenti asilo in Paesi terzi africani e stanno facendo nuovi accordi. Solo la Nigeria si è opposta. Intanto, anche l’UE guarda con interesse a questo controverso modello

La “politica della crudeltà” messa in campo dal presidente Usa Donald Trump si è arricchita di un nuovo capitolo che in questi ultimi mesi ha ulteriormente coinvolto diversi Paesi africani. Oltre al taglio drastico degli aiuti umanitari in seguito alla chiusura dell’agenzia di cooperazione Usaid – che ha avuto un impatto devastante su poveri, malati e profughi – sono cominciate anche le deportazioni di migranti e rifugiati nei cosiddetti “Paesi terzi”. Molti dei quali si trovano, appunto, in Africa.

L’unico che per il momento è riuscito a dire di no agli Stati Uniti è stata la Nigeria. «Abbiamo già 230 milioni di abitanti e non pochi problemi», ha dichiarato il ministro degli Esteri Yusuf Tuggar. Che ha aggiunto, rivolgendosi al presidente Trump con una buona dose di irriverenza e umorismo e citando un rapper degli anni Novanta, Public Enemy: «I can’t do nothin’ for you, man!», «Non posso fare niente per te, amico!». In altri termini, la Nigeria ha rifiutato di accogliere circa 300 venezuelani che avrebbero dovuto essere deportati dagli Usa.

Quella nigeriana sembra essere – almeno per il momento, ribadiamo – la posizione più razionale e più sensata di fronte al piano folle di spostare forzatamente i migranti non solo da un Paese all’altro, ma da un capo all’altro del mondo. Un’operazione propagandistica, certo, ma anche molto concreta, che solleva tanti interrogativi etici e legali circa la legittimità di questi trasferimenti, le garanzie di rispetto dei diritti umani delle persone interessate, ma anche sulla disumanità di questo processo.

Non tutti però hanno avuto la stessa reazione della Nigeria, anche perché il presidente Trump ha accompagnato la richiesta con pressioni e minacce, legate, ad esempio, all’aumento dei dazi o alla limitazione dei visti – due provvedimenti, peraltro, già applicati a molti Paesi -, ma anche con la promessa di “incentivi” economici o accordi di cooperazione soprattutto militare.

Molti Paesi africani, del resto, non hanno lo stesso peso demografico ed economico della Nigeria, che è pur sempre il primo produttore di petrolio in Africa e uno dei primi 10/12 al mondo. E dunque non hanno potuto o voluto dire di no agli Stati Uniti. E così nazioni come Sud Sudan, Ghana, Uganda e il piccolissimo Regno di Eswatini, incastonato nel Sudafrica, hanno iniziato a ricevere i deportati in quanto “Paesi terzi”. Ovvero Paesi in cui i migranti devono attendere che la loro situazione giuridica sia chiarita in vista dell’ottenimento della protezione internazionale o di essere rimandati in quelli di origine.

Già il meccanismo è complesso e controverso. In più non sempre le cose funzionano come dovrebbero. In Ghana, ad esempio, sono arrivati lo scorso luglio i primi undici deportati sulla base di un accordo che prevede che questo Paese accolga persone originarie dell’Africa occidentale. Tra i deportati figuravano cittadini di Nigeria, Togo, Liberia e Gambia che erano stati precedentemente trattenuti in un centro di detenzione Usa prima di essere trasferiti, incatenati su un aereo militare statunitense, in Ghana. Da qui, almeno sei sono stati portati contro la loro volontà in Togo, ma solo tre erano togolesi. Il che ha fatto insorgere alcuni avvocati e vari attivisti per i diritti umani.

Ancora più controversa la deportazione di quattro uomini in Eswatini e di otto (originari di Messico, Myanmar e Yemen), in Sud Sudan, due Paesi considerati non sicuri. Al punto che, per alcune settimane, gli otto migranti sono stati “dirottati” su Gibuti per poi finire comunque in Sud Sudan, una nazione poverissima e attraversata da vari livelli di conflitto e da diffuse situazioni di insicurezza. Lo stesso Dipartimento di Stato Usa sconsiglia ai propri cittadini qualsiasi viaggio in questo Paese, citando minacce come criminalità, conflitti armati e rapimenti, nonché il rischio di una nuova guerra civile. A inizio settembre, infine, uno degli otto deportati – un messicano che, secondo gli Usa, stava scontando una condanna all’ergastolo per omicidio – è stato rimpatriato nel suo Paese di origine.

Esperti delle Nazioni Unite e organizzazioni per i diritti umani sostengono che questi trasferimenti verso una nazione diversa dal luogo di origine potrebbero violare il diritto internazionale. Ne è convinto anche il professor David Super del Georgetown University Law Center, che mette in evidenza alla Bbc due questioni di fondo: «Ci sono seri dubbi circa il rispetto dei diritti umani in Sud Sudan e in Eswatini. Inoltre, non ci sono prove che gli Stati Uniti diano alle persone la possibilità di contestare la loro espulsione in Paesi terzi». Riguardo ai migranti deportati in Sud Sudan è stato presentato ricorso solo dopo il decollo del loro volo. Quindi, su indicazione del Tribunale, l’aereo è stato dirottato su Gibuti, dove i deportati sarebbero stati trattenuti in un container dentro una base militare statunitense durante tutto il procedimento giudiziario. La Corte Suprema ha quindi autorizzato le espulsioni, senza però specificare se il Sud Sudan fosse effettivamente un luogo sicuro per i migranti. Un’altra Corte Suprema, quella della Gran Bretagna, aveva invece bloccato per la stessa ragione – mancanza di sicurezza nel Paese terzo – la deportazione di richiedenti asilo verso il Ruanda nel 2023. Ora la decisione statunitense potrebbe creare un pericoloso precedente, spingendo «l’Amministrazione a muoversi ancora più velocemente, prima che i singoli cittadini possano accedere ai tribunali».

E infatti il governo Trump cerca di accelerare il più possibile gli accordi anche con altri Paesi africani come Liberia, Senegal, Mauritania, Gabon, Guinea-Bissau, Benin e Libia. L’Uganda, dal canto suo, ha già accettato di ricevere sul proprio territorio rifugiati che non ottengono il diritto d’asilo negli Usa e che non possono tornare nei Paesi di origine per motivi di sicurezza. Il ministro degli Esteri Harry Okello Oryem ha però precisato che il suo Paese è disponibile ad accogliere preferibilmente richiedenti asilo africani e che non accetterà invece coloro che abbiano commesso crimini e minori non accompagnati. Una precisazione, quest’ultima, alquanto allarmante, essendo che i minori dovrebbero godere di speciali tutele e non essere soggetti al rischio di espulsione.

Anche il presidente ruandese Paul Kagame, che in questi ultimi anni si è molto avvicinato al mondo anglosassone, ha confermato lo scorso agosto la disponibilità ad accettare fino a 250 deportati.
«Si tratta di un meccanismo complesso e discutibile che, tuttavia, sta prendendo piede un po’ ovunque nel mondo, Unione Europea compresa», commenta Oliviero Forti, responsabile Politiche migratorie e protezione internazionale di Caritas italiana e docente di Geopolitica delle migrazioni -. Per il momento l’Ue ha fatto accordi – altrettanto discutibili – con Paesi come Turchia, Tunisia, Libano, Egitto e Mauritania, versando oltre 9 miliardi di euro, affinché “trattengano” i migranti prima che arrivino in Europa. «Ma il Patto europeo sull’asilo e le migrazioni, che entrerà in vigore nel giugno 2026, prevede anche l’introduzione di “soluzioni innovative”, incluse l’esternalizzazione delle procedure di asilo e la creazione di centri di rimpatrio in Paesi terzi».

A questo proposito l’Ue ha guardato con grande interesse all’accordo Italia-Albania che, per quanto fallimentare sotto molti aspetti e con grosse falle dal punto di vista giuridico, pare rappresenti un modello a cui ispirarsi, seppure da perfezionare. Inoltre, la Commissione europea sta preparando una nuova proposta legislativa per rimpatri più efficaci.

«Un punto chiave della discussione – evidenzia il Migration Outlook 2025 dell’International Centre for Migration Policy Development (Icmpd) – è come formulare il concetto di “Paese terzo sicuro” nella nuova direttiva e se mantenere il “criterio di connessione”. Affinché un Paese terzo possa essere considerato “sicuro”, la legislazione Ue richiede che esso fornisca un livello di protezione sufficiente e che vi sia “una connessione tra il richiedente e il Paese terzo in questione, in base al quale sarebbe ragionevole per lui recarvisi”».

L’orientamento è quello di andare verso «un’applicazione estesa del concetto di “Paese sicuro” al fine di esternalizzare parti del processo di rimpatrio» e l’abolizione del “criterio di connessione”. Del resto, l’Ue o i suoi Stati membri considerano già come “modelli di successo” gli accordi fatti con Paesi come Libia, Tunisia, Egitto, Mauritania, Marocco, Pakistan e Bangladesh anche nel controllo dei flussi migratori e del rimpatrio.

«Queste questioni hanno un grado di complessità che l’opinione pubblica fatica a comprendere anche perché i media non ne parlano – fa notare Oliviero Forti -. Il tema della presenza irregolare di migranti è politicamente sensibile e riguarda tutti i Paesi europei. E viene regolarmente utilizzato specialmente in vista delle elezioni. Bisognerebbe invece interrogarsi se le misure auspicate dall’Ue siano non solo efficaci – cosa di cui dubito, visto il numero già ora molto ridotto di espulsioni -, ma soprattutto se siano rispettose dei diritti degli stessi migranti, che magari rischiano la vita una volta deportati in Paesi terzi non sicuri o in quelli di origine, come nel caso degli afghani. Per questo è fondamentale coniugare l’esigenza di gestire l’irregolarità con il rispetto del diritto internazionale umanitario».

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