La mistica dell’aratro
Occorre innanzitutto dissodare il terreno perché il seme possa germogliare. È quanto sostiene padre Adelino Ascenso, superiore generale della Sociedade Missionária da Boa Vista (Portogallo), già missionario in Giappone, che aprirà il Festival della Missione
Superiore generale della Sociedade Missionária da Boa Vista (Portogallo), padre Adelino Ascenso sarà tra i protagonisti del Festival della Missione di Torino, dove porterà la sua testimonianza di teologo impegnato nel dialogo interreligioso nella serata di apertura giovedì 9 ottobre. Il suo pensiero, ispirato dagli anni di vita missionaria in Giappone (1998-2014), è raccolto anche in un libro, che propone una prospettiva inedita e stimolante già nel titolo: “La mistica dell’aratro” (Ed. Qiqajon, pp. 169, euro 29). L’idea di fondo è che non basta gettare semi se prima non si è preparata la terra. L’aratro – si legge nell’introduzione del cardinale José Tolentino Mendonça, prefetto del Dicastero vaticano per la cultura e l’educazione – «è uno strumento inseparabile dalla storia umana. Strumento non solo del lavoro umano, ma anche dell’esperienza spirituale».
Padre Ascenso, l’espressione “mistica dell’aratro” sembra quasi un ossimoro. Che cosa le ha
ispirato questa immagine?
«In primo luogo, credo che il paradosso – ciò che è apparentemente contraddittorio – possa essere una via che conduce a ciò che è più vero negli esseri umani. Per quanto riguarda l’aratro in sé, naturalmente, il mio background rurale, il mio contatto diretto con la natura da bambino e l’immagine di un contadino che lavora la terra sono stati per me di grande ispirazione. Nella sfera spirituale, noi siamo la terra, spesso incolta o piena di ghiaia, argilla, granito o erbacce, che deve essere arata, il che significa un’immersione nelle profondità più intime di noi stessi e della nostra umanità. Dopo aver arato questa terra inospitale o sconosciuta, può essere seminato il seme che, in ultima analisi, è Cristo stesso. Tradotti nella dimensione dell’evangelizzazione, i terreni incolti sono quelli costituiti da tutti coloro che, nella società secolarizzata, anelano a un contatto con la parte più autentica della loro umanità. Possono essere cristiani o non cristiani, atei o agnostici, indifferenti disillusi o desiderosi di nuove spiritualità».
La fede del cristiano, però, «non è semplice adesione a una dottrina, ma una forma di vita concreta e di ricerca anticonformista. Al di fuori del mondo non c’è salvezza», scrive. È l’altra faccia della spiritualità?
«La fede del cristiano dovrebbe spingerlo all’azione, poiché due delle sue caratteristiche fondamentali sono la relazione e il coinvolgimento. Spesso si rischia di rimanere a livello della teoria, senza praxis, senza pratica. E questa pratica implica la disponibilità a immergere le mani nel fango dell’umanità ferita e sofferente. Solo in questa dialettica di incontro con il mondo nella sua vulnerabilità sperimenteremo la salvezza e diventeremo noi stessi strumenti di salvezza gli uni per gli altri. Non direi che si tratta di un’altra faccia della spiritualità, ma piuttosto di una spiritualità vissuta e sperimentata nella sua completezza: incontro con noi stessi, con gli altri, con la natura e con la trascendenza, tutti interconnessi».
In effetti, lei scrive che «la nostra missione è discernere i legami che connettono le estremità e i venti che le uniscono, scoprire in ogni avvenimento e in ogni incontro la coerenza del soffio divino». È stata questa anche la sua esperienza di missionario?
«Sì, posso dire che è sempre stato così. Credo che tutto sia interconnesso e che ogni evento della nostra vita quotidiana sia toccato dal soffio dello Spirito, anche se non ne siamo consapevoli».
Quanto gli anni di missione in Giappone hanno influenzato la sua visione spirituale?
«Quando sono arrivato in quel Paese, mi è stato presentato un prete cattolico che viveva lì da oltre cinquant’anni e gli ho chiesto quale consiglio avrebbe dato a un missionario appena giunto. La sua risposta è stata una sola parola: “nintai”, che significa “pazienza”, la cui profondità ho integrato nella mia vita nel corso del tempo. Pazienza nell’apprendimento della lingua; fecondità dell’ascolto silenzioso; apertura alla differenza, anche se può alla fine scuotere le proprie convinzioni; concezione del vuoto e della sua pienezza. Sì, è stato in tutto questo che il Giappone ha esercitato una grande influenza sulla mia visione spirituale che emerge anche nel libro».
Che cosa intende per inculturazione? Ritiene che nel mondo missionario ci sia ancora un’adeguata attenzione per questo tema?
«In giapponese esiste un’espressione molto suggestiva per definire “inculturazione”: “bunka-nai-kaika”. Si scrive con cinque caratteri che letteralmente significano “fiorire all’interno della cultura”. Tale fioritura richiede un costante esercizio di apprendimento e adattamento. Senza questo, la crosta di un adattamento superficiale non si spezzerà mai. Nel mondo missionario, ci sono stati numerosi tentativi onesti di inculturazione (ad esempio, Matteo Ricci in Cina, 1552-1610), poiché è parte intrinseca della fede cristiana. Tuttavia, la sua necessità non deve in alcun modo portare a una diluizione, distorsione o soffocamento del messaggio, la cui autenticità non può essere sminuita. Come scrive il cardinale Gianfranco Ravasi, “il processo di evangelizzazione interculturale è […] necessario, rischioso e delicato”. Occorre prestare adeguata attenzione alla sua pratica in ogni contesto culturale».
Lei afferma che Dio lo si incontra nel cammino. La ricerca di Dio è dunque sempre un invito al viaggio?
«Maurice Blondel, nella sua opera “L’Action”, dà una definizione di quella che potrebbe essere una risposta sintetica a questa domanda: “Dio non si trova dove restiamo, ma sempre al di là del nostro cammino”. Sì, la ricerca di Dio deve essere dinamica, deve implicare movimento: un cammino interiore, che può essere agevolato dal cammino esteriore. Da qui il fatto che, in un pellegrinaggio, la cosa più importante è il cammino, non la meta in sé».
Il suo linguaggio è per molti versi letterario e ricco di immagini poetiche. È un modo per esprimere quella “immaginazione del possibile” di cui parlava anche Papa Francesco?
«Credo che l’arte e la poesia, la letteratura e la musica, il teatro e il cinema siano mezzi privilegiati per esprimere l’indicibile, descrivere l’indescrivibile e toccare il trascendente. Le immagini poetiche suggeriscono e puntano oltre l’orizzonte e, nella loro espressività, toccano l’immaginazione e l’immagine di un possibile Dio a cui l’umanità anela».
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