Con mons. Martinelli la festa di San Francesco Saverio

Con mons. Martinelli la festa di San Francesco Saverio

Il vicario episcopale per la vita consacrata dell’arcidiocesi di Milano al Pime per la festa del grande evangelizzatore: «L’altro è sempre qualcuno per il quale Cristo ha dato la vita. Per questo la missione costruisce ponti, valorizza tutto ciò che c’è di positivo»

 

Martedì 3 dicembre a Milano la comunità del Pime di Milano ha celebrato la festa di san Francesco Saverio. La liturgia eucaristica nella chiesa di via Monte Rosa intitolata a questo grande evangelizzatore è stata presieduta da mons. Paolo Martinelli, vicario episcopale dell’arcidiocesi di Milano per la vita consacrata maschile, insieme al superiore generale padre Ferruccio Brambilasca, ai rettori delle varie case del PIME (Casa Madre, Monza, Villa Grugana, Sotto il Monte, Busto Arsizio e Rancio di Lecco) e ai confratelli.

Le Missionarie dell’Immacolata e alcuni amici che frequentano la chiesa di San Francesco Saverio hanno partecipato alla Santa Messa, animata con il servizio liturgico e il canto dai seminaristi del seminario internazionale di Monza. Al termine dell’Eucaristia, la festa è poi continuata con la cena in Casa Madre.

Pubblichiamo qui sotto il testo dell’omelia tenuta da mons. Martinelli al Pime che offre una riflessione interessante sul profilo del missionario alla luce della vita di san Francesco Saverio.

 

 

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Carissimi, celebrare la figura di san Francesco Saverio è un dono bellissimo per tutti i fedeli, innanzitutto perché celebriamo sua personalità evangelica integrale; non c’era nulla in lui che non fosse afferrato dalla passione di annunciare il vangelo a chi non aveva ancora conosciuto Gesù Cristo, figlio di Dio e salvatore nostro.

Tuttavia, se è dunque una gioia grande per la Chiesa celebrare questo figlio di Ignazio di Loyola, tra i primi a formare l’incipiente Compagnia di Gesù, è una festa in particolare per voi carissimi confratelli e amici del PIME, che guardate a questo grande santo missionario come ad un riferimento ideale, proprio per il suo stile totalizzante e radicale per la sua passione per la salvezza di tutti.

Ben si addicono a lui e anche a voi cari confratelli le parole di san Paolo che abbiamo ascoltato:  non è per me un vanto predicare il vangelo; è per me un dovere: guai a me se non predicassi il vangelo! … è un incarico che mi è stato affidato.

Il carattere di necessità e di dovere che l’apostolo delle genti richiama non è da intendersi come una legge esteriore alla persona, pesante, alla quale doversi flettere, come spesso capita nell’intendere il senso della Legge, nella nostra cultura moralista, che ha contrapposto il dovere al desiderio.

Si tratta invece della consapevolezza di un compito, di una missione che viene da Dio, nemmeno di un privilegio o di un onore umano di cui vantarsi, ma di un servizio essenziale, di un contributo decisivo in favore di tutti coloro che incontriamo, di cui ci si riconosce portatori e per questo debitori nei confronti degli altri.

Venir meno a un tale dovere è come venir meno al senso della propria vita. Tutto questo è testimoniato dalle lettere fervorose che san Francesco Saverio scrive a Ignazio di Loyola; portare il vangelo in obbedienza a Cristo fino ai confini della terra, perché si desidera la salvezza di tutti, la riconciliazione con Dio, la vita eterna.

Possiamo dire che questo è anche lo zelo che ha caratterizzato fin dall’inizio i missionari del Pime, attraverso l’intuizione di mons. Angelo Ramazzotti e la storia che ne è seguita. Dare vita ad un istituto esclusivamente missionario, non un istituto di vita religiosa, ma totalmente dedicato alle missioni estere: vocazione missionaria dunque ad vitamad extraad gentes ed insieme, mediante la vita comunitaria, quale vero soggetto di ogni autentica missione evangelica. La vostra realtà esprime nella stessa forma di vita il mandato evangelico: Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura.

Il mandato apostolico, dunque, come forma stabile della vita. Questo ci permette di riflettere sul senso della missione come parola chiave. La vostra testimonianza, come quella di san Francesco Saverio, mostra come la parola missione non sia innanzitutto qualche cosa da fare, un’opera da eseguire, ma modo di esistere, di abitare la storia, la cui radice affonda nel mistero della vita di Cristo ed ultimamente nella vita divina.

Infatti il mandato apostolico è radicato nella persona di Cristo che la lettera agli Ebrei chiama “l’apostolo”, l’inviato, in senso assoluto; gli stessi vangeli, in particolare quello di Giovanni attestano che la coscienza stesso di Cristo è innanzitutto coscienza filiale di essere mandato dal Padre e di identificarsi così con la sua stessa missione. Egli non tanto ha una missione, quanto piuttosto è la missione del Padre, per questo egli deve realizzare la sua missione per la quale è venuto, a costo della propria vita.

Questa assolutezza della missione trapassa nel mistero della Chiesa. Proprio per questo ritengo tanto importanti le espressioni di papa Francesco in Evangelii Gaudium quando si afferma: “La missione al cuore del popolo non è una parte della mia vita, o un ornamento che mi posso togliere, non è un’appendice, o un momento tra i tanti dell’esistenza. È qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se non voglio distruggermi. Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo. Bisogna riconoscere sé stessi come marcati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare”.

Sono parole radicali che ci spingono ad una riforma, ad un ripensamento radicale delle nostre forme di vita. Infatti, la missione appare qui nell’ordine dell’essere prima che del fare. Noi non siamo semplicemente “gettati nel mondo”, ma siamo “mandati nel mondo”; l’essere mandati abbraccia l’essere gettati. Questo afferma che la nostra vita è voluta, è preziosa, è parte del disegno buono di Dio.

Ma che cosa vuol dire intendere in modo così radicale l’essere missione? Innanzitutto essere missione è un nuovo modo di concepire se stessi, è una nuova coscienza di sé – simile alla affermazione radicale di Paolo ai Galati quando afferma: non sono più io che vivo ma Cristo che vive in me – è la coscienza di sé come mandato, questo implica concepirsi istante per istante in rapporto con colui che manda: io-sono-tu-che-mi-mandi, che mi invii, ad essere segno umile della tua presenza.

Inoltre essere missione vuol dire concepire se stessi in profondo legame con coloro che con me sono mandati; essere mandati implica la fine dell’autoreferenza, perché si è da un altro e perché si è posti insieme a coloro che sono stati con me chiamati. Senza comunione e vita fraterna non c’è missione.

Infine essere missione vuol dire concepirsi sempre in rapporto a coloro ai quali si è mandati. Dunque concepire sé in rapporto con coloro a cui si è inviati a portare il vangelo e a mostrare la capacità umanizzante e liberante del vangelo, della sequela di Gesù.

Concepirsi come missione vuol dire in questo modo sentire l’altro come parte di se stesso, vuol dire concepirsi a servizio dell’altro a cui si è inviati; l’essere missione vuol dire riconoscere che ogni altro, chiunque sia l’altro che si incontra, è un altro a cui sono inviato, mandato; perché l’altro, qualsiasi cultura appartenga, sarà qualcuno che è voluto da Dio perché con lui nasca un rapporto di comunione e di fraternità.

In questo modo l’essere missione vince ogni estraneità alla radice. Anche in questo la vicenda di san Francesco Saverio è emblematica; egli si è sentito familiare anche con chi di per sé culturalmente era lontanissimo; era la missione che creava in lui il principio di una prossimità invincibile con l’altro, chiunque sia, anche nelle “Indie”.

L’altro è sempre prima di ogni differenza qualcuno per il quale Cristo ha dato la vita. Per questo l’essere missione, il lasciarsi inviare da Cristo crea legami, abbatte i muri, costruisce ponti, valorizza tutto ciò che c’è di positivo, vagliando ogni cosa e trattenendo ciò che è bello, vero e buono.

L’importanza dell’interlocutore, del destinatario della nostra missione, la valorizzazione dell’altro, di ogni altro, porta san Paolo ad affermare: pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero.  Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno.

Ecco il metodo della missione: non comunicare una dottrina astratta, ma un evento vitale che entra nelle pieghe e nelle piaghe della vita di colui che si incontra: si tratta di trasmettere una vita, una vita nuova, quella che scaturisce dall’incontro con Cristo.

Qui ritroviamo le ormai celebri parole di papa Francesco sull’uscire che non si può in effetti comprendere in modo adeguato se non in termini di missione: “usciamo, usciamo ad offrire a tutti la vita di Gesù Cristo…: preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. … Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita”.

Le prime volte che leggevo questa frase mi sembrava quasi un eccesso, ma alla luce della visione dell’uomo che scaturisce dall’essere mandati, si capisce che è mille volte meglio il rischio di sbagliare; poiché se non usciamo, se rimaniamo chiusi in noi stessi, perdiamo in noi stessi, perché siamo fatti per essere mandati, per uscire ed incontrare e portare a tutti la gioia dell’amicizia con Gesù.

Da qui si comprende come essere missione ci espropria, perché vuol dire non portare agli altri noi stessi, una nostra opinione. Non c’è nulla di più contradditorio che un missionario autoreferente; essere missione vuol dire portare un altro all’altro, vuol dire essere testimoni, portare l’amicizia con Cristo, senza la quale agli altri porteremmo troppo poco. E che questo portare l’amicizia di Cristo si mostri nel fiorire di una nuova umanità, un nuovo umanesimo secondo Dio, perché l’umano sia liberato e rigenerato, poiché come dice il grande Ireneo di Lione, la gloria di Dio è l’uomo vivente.

Ringraziamo il Signore, dunque, per San Francesco Saverio e per tutti voi cari confratelli ed amici, ringraziamo il Signore la vostra testimonianza, per la testimonianza dei vostri santi e martiri, dal beato Giovanni Mazzucconi fino padre Fausto Tentorio. La vostra presenza è tanto cara alla nostra diocesi di Milano perché non solo portate il vangelo fino ai confini della terra ma anche perché ci aiutate a ricordare che ciascuno di noi, anche qui nella nostra metropoli è una missione in questo mondo.