Tibhirine vive vent’anni dopo

Tibhirine vive vent’anni dopo

A vent’anni dal rapimento e dalla barbara uccisione, il ricordo dei monaci trappisti di Notre Dame de l’Atlas è ancora vivo. Non solo come memoria. Lo “spirito di Tibhirine” continua a significare una possibilità vera di incontro

 

La storia dei monaci di Tibhirine continua ancora oggi, mentre celebriamo il dono della loro vita, offerta a Dio e agli uomini in questo Paese, l’Algeria, che hanno tanto amato. Sono passati vent’anni da quella notte del 26-27 marzo 1996, quando sette monaci trappisti vennero rapiti nel monastero e successivamente uccisi. Vent’anni per una memoria che attraversa il tempo, una generazione che passa, una storia piena di avvenimenti, una condivisione di vita che non si è spenta, una presenza che continua con uomini nuovi, impegnati nello stesso solco di fratellanza e dialogo tra musulmani e cristiani.

Questa memoria è custodita innanzitutto dalla popolazione di Tibhirine, un centinaio di famiglie che ricordano la presenza dei monaci al loro fianco: «Voi siete il ramo su cui noi, gli uccelli, ci posiamo». La gente di qui non ha mai chiesto, direttamente o indirettamente, che i monaci lasciassero Tibhirine; al contrario, desidera profondamente il ritorno di una comunità di “uomini di preghiera tra gli uomini di preghiera dell’islam”. E non passa giorno senza che uno o l’altro degli abitanti del posto non me lo ripeta con le lacrime agli occhi.

I sette fratelli uccisi e i due superstiti hanno lasciato un ricordo di gentilezza, lavoro, preghiera e servizio che molti rimpiangono ancora oggi. E, incredibilmente, quasi tutte le settimane si presenta alla porta del monastero qualcuno che viene a cercare… fratel Luc, il medico! Non sanno che è stato ucciso o pensano che ci sia qualcuno al suo posto. Talmente la sua fama è ancora viva!

 

Padre Jean Marie Lassausse

 

Dopo due tentativi di riportare la vita monastica a Tibhirine, l’allora arcivescovo di Algeri, Henri Teissier, ha chiesto a me, prete della Mission de France e agronomo, di farmi carico dell’eredità dei monaci per una transizione che non avrei mai immaginato sarebbe durata quindici anni. Il mio ruolo è stato quello di continuare a “coltivare” lo spirito di Tibhirine: da un lato, si trattava, molto concretamente, di portare avanti il lavoro agricolo sui terreni del monastero, dall’altro, di garantire una presenza che potesse consentire una nuova nascita. Non mi sono mai pentito di aver accettato questo incarico, anche se non è stato semplice. Questo perché mi ha riservato anche molte gratificazioni, soprattutto per la gentilezza delle persone e per il tessuto di relazioni che ho ereditato da quasi sessant’anni di presenza monastica su queste alture dell’Atlante algerino.

D’altro canto, Tibhirine resta ancora una domanda aperta, una pagina dolorosa tra due Paesi, l’ex potenza coloniale francese e l’Algeria indipendente. Dolorosa perché non c’è ancora una verità. Il caso della morte dei monaci non solo è aperto, ma continua a essere funestato da una serie di bugie, falsità, dossier nascosti, continui malintesi e sottintesi. In questo contesto, ho sempre pensato che era necessario continuare a essere presente e a lavorare con discrezione, sino a garantire, anno dopo anno – attingendo alle tradizioni di qui e migliorando per quanto possibile la lingua – una presenza permanente che è stata possibile solo poco più di un anno fa. Essere riconosciuto come “ibn el balad” – figlio del posto – è oggi un lasciapassare molto efficace per la quotidianità della vita al monastero.

Infine, quest’anno, in cui ricorre il ventesimo anniversario della morte dei monaci, potrebbe essere quello in cui vedrà la vita una nuova presenza, quella di “Chemin Neuf”. Si tratta di una comunità nuova, incentrata sul dialogo ecumenico, che avrà il compito di conservare la memoria, ma anche e soprattutto di inventare nuovi modi di solidarietà e fratellanza tra il monastero e la popolazione, oltre che di continuare a fare del monastero un luogo di riferimento per i cristiani non solo della Chiesa d’Algeria, ma anche di tutta la Chiesa universale, che in questi anni ha imparato a conoscere lo “spirito di Tibhirine”, spirito di tolleranza, di fraternità tra le religioni, di convivialità tra diversi credenti. In altre parole, segno di una convivenza possibile tra la gente del posto e le persone che vengono da altrove. Perché questo sia possibile, bisognerà vincere la riluttanza delle autorità algerine, che si è tradotta in questi ultimi tempi in misure sempre più stringenti di sicurezza, specialmente dopo gli attentati di In Amenas nel 2013 e l’uccisione di Hervé Gourdel in Cabilia nel 2014.

Questo significa che sia io che il laico cistercense che vive con me a Tibhirine, dobbiamo segnalare ogni nostro spostamento oltre a essere costretti a muoverci con la scorta. Non possiamo più uscire dal monastero neppure per andare nel villaggio a salutare i vicini. Spesso i permessi agli stranieri che vivono in Algeria e che vogliono venire a visitarci vengono negati, mentre gli stessi algerini devono dichiarare le proprie generalità alla gendarmeria. Talvolta mi chiedo cosa vogliano veramente le autorità algerine: una presenza discreta o la chiusura del monastero? Naturalmente, noi siamo stranieri che vivono discretamente nella “casa dell’islam”, come dicevano gli stessi monaci. Ma qualunque straniero, se ha dei doveri nei confronti del Paese che lo ospita, ha anche dei diritti. Ecco perché, oggi più che mai siamo chiamati a dialogare e a riflettere insieme sui diritti reciproci.

Per mantenere una presenza a Tibhirine occorre dunque pagare questo prezzo, a volte gravoso, legato ai problemi di sicurezza. Bisogna esserne consapevoli, senza per questo rinunciare a portare avanti quello che è il senso della nostra presenza qui: la creazione di una piattaforma di dialogo tra le religioni per un miglior vivere insieme. Durante la lunga presenza dei monaci cistercensi lo scopo era lo stesso: convivialità per una più grande fratellanza. Non dobbiamo dimenticarlo, nonostante le difficoltà. Nulla può distoglierci dal continuare a costruire opportunità di dialogo vero per un mondo che possa essere sempre più ospitale e rispettoso delle differenze.