«La mia Hong Kong che spera nei giovani»

«La mia Hong Kong che spera nei giovani»

Dignità, unità, attenzione per i giovani. Il nuovo vescovo di Hong Kong, Stephen Chow Sau-yan, è un gesuita da sempre interessato all’educazione, ma anche alle grandi sfide che la metropoli asiatica sta affrontando. E che interpellano da vicino la comunità cattolica. Alla nostra rivista la sua prima intervista che apre il numero di febbraio 2022 di “Mondo e Missione”

 

«Trovo inaccettabile che la dignità umana sia ignorata, calpestata o tolta di mezzo. Dio ci ha dato questa dignità quando ci ha creati a sua immagine e somiglianza. E dunque è universale perché proviene dall’amore di Dio». Ha una personalità forte e un compito difficile il nuovo vescovo di Hong Kong, Stephen Chow Sau-yan, consacrato lo scorso 4 dicembre nella cattedrale dell’Immacolata Concezione, dopo essere stato nominato da Papa Francesco il 17 maggio 2021. Gesuita, con studi in Irlanda e negli Stati Uniti, monsignor Chow ha guidato la Provincia cinese della Compagnia di Gesù, ma soprattutto ha dedicato gran parte della sua vita alla formazione dei giovani, sia come docente presso l’Holy Spirit Seminary College sia come supervisore delle due sedi del prestigioso Collegio di Wah Yan gestito dai gesuiti. Di qui, la sua grande attenzione per i temi dell’educazione, ma anche dei diritti e delle libertà. Temi molto delicati, oggi, in una metropoli che sperimenta ogni giorno di più il controllo liberticida di Pechino, che rischia di estendersi anche alla gestione delle oltre trecento scuole cattoliche di Hong Kong.

Monsignor Chow, la comunità cattolica hongkonghese attendeva da due anni la nomina del vescovo con grande trepidazione e preoccupazione. Come vive questa sua nuova responsabilità?
«È un impegno molto oneroso. Sono grato che le persone siano gentili e incoraggianti e non lo do per scontato. Non vivo di opinione pubblica. Sennò non sarei libero di discernere la volontà di Dio e di avere libertà interiore. Il mio è un esercizio di bilanciamento e trovo questo stimolante. Non sono un diplomatico: il vescovo non lo è. Certo, a volte dobbiamo essere diplomatici, ma la mia preoccupazione principale è discernere la volontà di Dio. Accettare di essere vescovo è stato un discernimento di libertà interiore. Pensavo che un membro del clero diocesano avrebbe potuto fare meglio. Mi piaceva lavorare nel campo dell’istruzione gesuitica. Ma in questo processo sono stato invitato all’obbedienza, che significa abbandonarsi».

Spiritualità ignaziana e attenzione per l’educazione, la cultura e i diritti umani hanno sempre contraddistinto il suo percorso…
«Sono stato educato dai gesuiti. Li ho conosciuti come persone e non solo come sacerdoti. La spiritualità ignaziana ha un grande impatto su di me. Essa influenza la mia idea di Dio e il mio rapporto con Lui. Padre Alfred Deignan (1927-2018, uno dei missionari più apprezzati di Hong Kong, dove ha operato per 65 anni – ndr) è stato il mio mentore. Ho imparato tanto da lui: l’amore, la compassione, la pazienza, la speranza. Quando parliamo di diritti umani, invece, penso a padre James Hurley (1926-2020, instancabile promotore della giustizia sociale – ndr). Sono entrato in Amnesty International prima del 1989, anche se ora non ne faccio più parte. Gli incidenti del 1989 (il movimento di piazza Tiananmen e la sua violenta repressione – ndr) mi avevano molto colpito. Mi hanno messo in contatto con la mia identità di cinese. La mia vicenda personale e quella del popolo cinese sono state collegate da quell’evento.
Nei molti anni trascorsi all’estero, invece, ho imparato l’importanza della cultura. Ad Harvard, in particolare, ho capito come essa impatti sulla nostra vita. Ecco perché ora do grande importanza a quella che stiamo creando. La cultura può essere sovversiva. E poi c’è l’idea che la realtà non sia un dato di fatto, ma viene costruita; e noi la costruiamo insieme. Gli educatori, in particolare, sono “co-costruttori” con i giovani. Anche la Chiesa dovrebbe essere così: lavorare con le nuove generazioni per costruire il futuro insieme».

Lei ha operato molti anni nell’ambito dell’educazione dei giovani. Quali sono le difficoltà e le sfide, in particolare dopo l’introduzione della legge sulla sicurezza nazionale, il primo luglio 2020?
«Siamo in una fase diversa. Dobbiamo stare attenti a non mettere nei guai i nostri figli, i nostri studenti e la scuola. Il nostro compito principale è proteggere gli studenti. Come educatori speriamo che possano maturare un pensiero indipendente, e non solo all’interno di uno schema prestabilito. Ci auguriamo che saranno in grado di avere più prospettive, in modo da apprezzare le differenze e venire a patti con la realtà. Dobbiamo comprendere cosa è legale e cosa non lo è. È nostro dovere aiutarli a capire la situazione e allo stesso tempo aiutarli a pensare. Alcune persone del mondo accademico non sono equilibrate. O sono rigidamente conservatori o nevroticamente liberali. Questi estremismi non sono salutari. Molti insegnanti esperti, però, sono emigrati. Non è facile assumere insegnanti e presidi. Anche diversi professionisti, come ad esempio assistenti sociali e psicologi, sono andati via. Questa è un’altra realtà che dobbiamo affrontare».

Di certo molti giovani sono delusi dall’attuale situazione politica: ha un messaggio per loro?
«Vorrei dire: “Sii una giraffa con i piedi per terra e una visione di futuro”. Ma non si possono avere contemporaneamente tutti i piedi a terra: quando la giraffa si muove, uno è in aria. C’è bisogno di visione. E c’è bisogno di capire il presente e il contesto. Non guardare i muri, guardare il futuro. Ai giovani dico anche di immaginare come vogliono che sia la Chiesa, il mondo, la nostra Hong Kong; e di condividere la loro visione con gli altri, non ascoltando solo quelli che la pensano come loro. Questo significherebbe finire negli stessi vicoli ciechi. Occorre ascoltare anche persone diverse, e persino quelle con cui non si va d’accordo. Solo così è possibile avere più prospettive».

Molti stanno lasciando Hong Kong preoccupati per il futuro. E anche i missionari stranieri, come quelli del Pime che sono presenti da ben 165 anni, si interrogano sul loro avvenire…
«Hong Kong deve continuare a essere una città internazionale. Non ci si potrà liberare degli espatriati. Come religiosi, dobbiamo imparare a lavorare con il governo e a trovare tutto lo spazio possibile. Ma questo non significa che non possiamo più essere critici. Siamo qui come profeti, ma con l’umiltà del dialogo. Credo davvero che i missionari abbiano un posto nella Chiesa di Hong Kong. Apprezziamo il loro ruolo e quello che hanno fatto, e faremo del nostro meglio per tenerli qui».

Molti pensano che il compito più urgente della comunità cattolica di Hong Kong sia promuovere l’unità, dopo i recenti drammi politici. È d’accordo? Cosa farà a riguardo?
«Sono decisamente d’accordo. Occorre unità. Non ho ancora un piano dettagliato. Parleremo e ascolteremo per discernere la strada da percorrere. La conversazione deve includere l’ascolto, altrimenti diventa un monologo. E, naturalmente, Dio deve essere parte del discernimento. Ai giovani delle nostre comunità piace essere inclusi nel confronto. Avremo più dialogo con loro e troveremo la via per fare le cose in modo buono e produttivo».

Ha altre priorità per la comunità cattolica e la società di Hong Kong?
«Penso che sia troppo presto per dirlo. Hong Kong sta cambiando: e quando il contesto cambia, bisogna adattare le priorità». MM


Il vescovo gesuita

Nato a Hong Kong il 7 agosto 1959 in una famiglia cattolica, Stephen Chow è entrato nella Compagnia di Gesù nel 1984, avendo già conseguito baccalaureato e master in psicologia all’Università del Minnesota (Usa). Durante il noviziato, ha ottenuto un master in filosofia al Milltown Institute di Dublino. In seguito ha conseguito un master in sviluppo istituzionale presso la Loyola University di Chicago (1993-1995) e un dottorato di ricerca in educazione ad Harvard (2000-2006).
Ordinato sacerdote nel 1994, dall’anno successivo ha lavorato a Hong Kong nelle due sedi del Collegio di Wah Yan, di cui è diventato supervisore. Docente all’università di Hong Kong e al seminario diocesano dello Holy Spirit, dal primo gennaio 2018 sino alla nomina a vescovo è stato responsabile della Provincia cinese della Compagnia di Gesù. Succede a monsignor Michael Yeung Ming-cheung, deceduto nel 2019.


Nella morsa di Pechino

Dopo la cosiddetta “rivoluzione degli ombrelli” del 2014, nuove manifestazioni hanno scosso Hongk Kong nel 2019. Centinaia di migliaia di persone si sono riversate nelle strade della metropoli per far sentire pacificamente le loro istanze di libertà e democrazia. Un movimento imponente di tantissimi giovani, ma non solo, che il governo cinese ha represso con la forza e con l’arresto massiccio di attivisti, oppositori e giornalisti…
Il primo luglio 2020, l’approvazione della legge sulla sicurezza nazionale da parte di Pechino – che punisce severamente i reati di secessione, sovversione, terrorismo e collaborazione con forze straniere che mettono in pericolo la sicurezza – ha posto definitivamente fine alla cosiddetta “eccezione democratica” di Hong Kong, che si fondava su un alto grado di autonomia e sul principio di “un Paese-due sistemi”.
Lo dimostrano anche le elezioni dello scorso dicembre per il Consiglio legislativo, stravinte dai candidati vicini a Pechino, ma disertate da gran parte della popolazione.