Ciad: con i profughi del Sudan, proteggiamo persone e ambiente
Nell’est del Ciad, l’arrivo di oltre 870 mila profughi sudanesi sta avendo un impatto ambientale devastante su un territorio già molto fragile. Fratel Fabio Mussi, missionario del Pime, sta sperimentando la costruzione di dighe anti erosione insieme alla popolazione locale e agli stessi profughi
Nell’est del Ciad, al confine con il Sudan – dove si sta consumando una delle guerre e delle tragedie umanitarie più devastanti al mondo – circa 870 mila profughi sono stati accolti in oltre 30 campi. Pur essendo uno dei Paesi più poveri al mondo e con molte problematiche interne, il Ciad ha mostrato grande disponibilità a ospitare sul proprio territorio chi fugge da situazioni tragiche nei Paesi limitrofi.
Dal 15 aprile 2023, quando è iniziato il conflitto in Sudan, l’azione del Governo ciadiano e l’intervento delle agenzie delle Nazioni Unite hanno permesso di gestire l’accoglienza di un’enorme massa di disperati che affluivano giornalmente nel Paese. Purtroppo, le regioni dell’est sono anche quelle più disagiate dal punto di vista climatico e ambientale, essendo per il 70% desertiche o di savana arbustiva.
Il sovraffollamento causato dall’emergenza umanitaria ha provocato anche un progressivo degrado dell’ambiente naturale, già segnato dall’avanzata del deserto e dai cambiamenti climatici, con periodi di siccità intercalati da inondazioni eccezionali. L’ambiente al confine con il Sudan presenta zone pianeggianti di terreno sabbioso o argilloso e colline rocciose con alberi e arbusti che diminuiscono progressivamente. La causa principale è l’afflusso straordinario dei profughi e sfollati che ha raddoppiato la popolazione residente nei villaggi. Se non si interviene rapidamente la situazione diventerà sempre più catastrofica, con la prospettiva che i terreni diventino irrecuperabili.
La nostra esperienza decennale, come Caritas diocesana di Mongo e Federazione delle Banche di cereali del Guerà (FBCG), nella protezione della natura è iniziata con i programmi di rimboschimento delle aree circostanti i villaggi, partendo dalla collaborazione per le attività di sviluppo agricolo, educativo, sanitario e socioeconomico.
Con queste iniziative, in cui sono stati coinvolti positivamente gli alunni delle scuole elementari e superiori, che ogni anno piantavano gli alberi nel villaggio, ci si è resi conto che quell’iniziativa, per quanto importante, non era sufficiente. Il degrado ambientale, e in particolare l’erosione dei terreni coltivabili, a causa dei cambiamenti climatici e del sovraffollamento, era molto più rapido degli interventi realizzati fino a quel momento. Da qui è nata l’idea di creare dighe anti erosive.
Ripristinare un ecosistema richiede uno sforzo prolungato, ma una tecnologia abbastanza semplice. La cosa indispensabile, però, è la collaborazione attiva della popolazione locale. Non è tanto una questione di soldi, ma soprattutto di sensibilizzazione e coinvolgimento degli abitanti del posto. Solo con la loro collaborazione si può avviare un programma di intervento progressivo nelle diverse zone degradate. Sia che si tratti di fessure nel terreno provocate dall’erosione delle piogge che di burroni lungo i torrenti stagionali, la soluzione più concreta e rapida è la realizzazione di dighe costruite con “gabbioni” di filo di ferro intrecciato, riempiti di pietre e legati tra di loro in modo che presentino il massimo della resistenza alla massa di acqua torrenziale durante il periodo delle piogge.



Con questo metodo si ottengono tre risultati essenziali. Il primo è quello di ridurre la forza dell’acqua e quindi diminuire l’erosione dei terreni adiacenti. Il secondo è quello di favorire la penetrazione nel terreno dell’acqua piovana in modo da riempire le falde sotterranee che sono la riserva essenziale per i pozzi e le perforazioni per l’alimentazione umana. Il terzo è il recupero dei terreni adiacenti alla diga che potranno essere utilizzati come orti o area di rimboschimento.
Certamente per realizzare una diga anti-erosiva su vasti torrenti è necessaria un’azione coordinata e mezzi non sempre alla portata della popolazione locale. Per questo la collaborazione tra organizzazioni specializzate nel settore – come la Caritas diocesana, la FBCG ed altre associazioni con finalità umanitarie – e la popolazione del luogo sono la base di una riuscita di queste opere. Le organizzazioni forniscono i mezzi per le attrezzature e il trasporto del materiale necessario, mentre la popolazione mette a disposizione il personale per la realizzazione. Una formazione preventiva per imparare la “tessitura” dei cassoni di filo metallico può essere organizzata con un gruppo selezionato di 20 volontari, metà donne e metà uomini, scelti tra la popolazione coinvolta nel progetto.
Se la gente è veramente interessata a questi miglioramenti dell’ambiente, bastano una ventina di giorni per la realizzazione di una diga. Logicamente è importante una buona organizzazione che porti sul posto prescelto la quantità di pietre sufficienti per il riempimento dei “gabbioni”.
Nel mese di luglio del 2025, abbiamo realizzato tre dighe filtranti anti-erosive sul territorio del campo profughi e del villaggio di Metché, situato nella provincia del Ouaddaï, a circa 30 chilometri dal confine con il Sudan.
Come precisato sopra, le venti persone proposte dai responsabili del villaggio e del campo profughi si sono dimostrate tutte all’altezza della formazione, ricevendo anche i complimenti dei due esperti formatori venuti dalla provincia del Guerà. Con la supervisione dei formatori, in venti giorni, sono riusciti a realizzare tre tipi diversi di dighe. Tra di loro sono state poi individuate quattro persone che potranno diventare nei prossimi mesi degli animatori e formatori per la realizzazione dei “gabbioni” in altri villaggi.
Durante i lavori, abbiamo dialogato con i venti giovani che hanno seguito la formazione ed eseguito le opere per cercare di capire qual era la loro attitudine di fronte a questa nuova avventura. Tutti si sentivano orgogliosi di poter fare qualcosa di utile e duraturo. È il caso di Fatimata, una giovane rifugiata sudanese di 23 anni, che ha perso con la guerra il padre e due fratelli più grandi: «Fra qualche anno, quando i miei tre figli saranno grandi, mostrerò queste dighe e dirò loro che c’ero anch’io a costruirle. Abbiamo dovuto imparare a intrecciare i fili di ferro per fare questi gabbioni che adesso sono pieni di pietre. E potrò insegnar loro come farli». Anche Hamhat, un giovane abitante del villaggio di 25 anni di etnia massalit, ha aggiunto: «Quando il capo-villaggio mi ha proposto di venire a imparare a costruire le dighe in pietra stavo per partire nelle miniere d’oro più a nord in cerca di un avvenire migliore. Adesso che ho imparato a costruire le dighe con le mie mani e con le nostre pietre ho capito che posso realizzare qualcosa di utile per me e per la mia famiglia. Così potrò guadagnarmi la vita con quello che ho imparato qui, e la gente del villaggio non mi dirà più che sono fuggito dal villaggio in cerca di avventure».
Siamo consapevoli che con questa piccola esperienza positiva non possiamo ritenere che tutte le problematiche siano state risolte. Il nostro impegno come Caritas diocesana di Mongo e come Federazione delle Banche di cereali del Guerà (FBCG) è solo all’inizio e richiede di essere proseguito con le persone e i mezzi adeguati. Ma siamo anche coscienti che l’impegno per il ripristino dell’ambiente naturale migliorerà certamente anche la coesione sociale all’interno delle comunità. Infatti, questa esperienza ci conferma che, se si vuole, è possibile contrastare il degrado ecologica, collaborando con la popolazione locale e rifugiata, ripristinando un equilibrio tra uomo e natura.
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