Altri 22 anni di missione? Perché no!
Il destino ha scandito la mia vita in cicli di ventidue anni spesi a tappe alterne in tre Paesi: Italia, Filippine e Papua Nuova Guinea. Mi sono fatto l’idea che a sessantasei primavere un ultimo ciclo di ventidue anni, con un po’ di fortuna, può ancora starci…
I miei coetanei (classe 1959) vanno in pensione. Alcuni lo sono già. Dopo quarant’anni di lavoro potevo pensarci anch’io. Ma sono un missionario. Ho anche notato che il destino ha scandito la mia vita in cicli di ventidue anni spesi a tappe alterne in tre Paesi: Italia, Filippine e Papua Nuova Guinea. Mi sono fatto l’idea che a sessantasei primavere un ultimo ciclo di ventidue anni, con un po’ di fortuna, può ancora starci. Ora tutto lascia prevedere che il tempo e le forze che mi rimangono siano ormai per le Filippine. Ogni altro futuro servizio in Papua Nuova Guinea a questa età è improbabile; in Italia troppo difficile per lo stile di vita, la complessità sociale, la solitudine, il clima troppo diverso da quello dei tropici. Che c’è da fare per un missionario nelle Filippine, qualcuno si chiederà, in una nazione cristiana da cinquecento anni? Certo, il Paese non è una delle più urgenti frontiere della missione. Tanto meno in Asia. Ma la popolazione qui è in forte aumento, i sacerdoti locali si occupano per lo più delle parrocchie tradizionali e della classe media, alcuni vescovi cercano personale per avviare nuove stazioni missionarie, dividendo parrocchie sempre più grandi in aree rurali o nelle periferie urbane.
Succede ad esempio nella diocesi di Kalookan, parte di Manila, o nella diocesi meridionale di Kidapawan, isola di Mindanao, dove i missionari del Pime sono presenti dal 1981 e pensavano ormai di ritirarsi dopo aver sviluppato in quarant’anni due grosse aree missionarie. Mindanao, in passato scarsamente popolata, era quasi interamente musulmana o animista sino all’arrivo degli agricoltori cristiani dal nord e dal centro del Paese nella metà del secolo scorso. Questi hanno portato con sé la fede e la vita cristiana, ma non l’organizzazione ecclesiale, tutta da creare dove non c’erano diocesi, parrocchie, comunità religiose, seminari, catechisti… Si è trattato quindi di vera attività missionaria tradizionale, quasi come l’antica “plantatio ecclesiae” (fondazione della Chiesa) nei cosiddetti paesi di missione dove di cristianesimo non esisteva nulla. La bussola della “plantatio ecclesiae” è stata da tempo abbandonata dalla teologia e dal mondo missionario senza essere adeguatamente sostituita. L’attività missionaria è ora un po’ di tutto e niente di preciso con la conseguenza di essere poco attraente e confusa anche per chi la abbraccia. Ma a me (e ad altri) non dispiace lavorare ancora per la “plantatio ecclesiae”, per quanto ad un stadio avanzato, nei villaggi rurali di Mindanao. Lampayan è un grosso centro, ai piedi dei monti, parte della parrocchia di Matalam, diocesi di Kidapawan. Tutto attorno una quindicina di comunità. La nuova stazione missionaria aprirà a fine novembre. Non c’è nulla fuorché le cappelle tipiche di ogni villaggio filippino dove saltuariamente si celebra la Messa. Pare che un poliziotto in pensione mi dia una piccola casa in affitto. Il resto verrà col tempo, con gli anni. Vediamo come le quindici comunità vogliono costruire la Chiesa di anime prima della Chiesa di mattoni o di acciaio; come vogliono essere cristiani nel mondo prima che nel tempio. Sono di diverse lingue ed etnie. Prevalgono i discendenti degli immigrati, ma non mancano i nativi più poveri e svantaggiati, molti mai divenuti cristiani, giustamente orgogliosi e nostalgici delle loro tradizioni. E poi i giovani, che chiedono accompagnamento, scuola, avviamento al lavoro. La comunità cristiana non può fare tutto, ma nemmeno esimersi dall’essere lievito, luce e guida per chiunque attorno.
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