AL DI LA’ DEL MEKONG
Avere una storia. Evangelizzare prima o dopo il Coronavirus.

Avere una storia. Evangelizzare prima o dopo il Coronavirus.

All’ospedale, mentre aspettavo che Sorya venisse visitato, pensavo tra me che la Chiesa, anzi il Vangelo, non deve abbandonare le corsie d’ospedale. Sono luoghi privilegiati. E però Sorya stava lì a dirmi che non deve nemmeno abbandonare la scuola e l’educazione. Perché si evangelizza solo se si ha una storia insieme

 

«Io non so spiegarmi questa malattia
all’attacco del mondo, non so guarire
questa malattia che mi indolora e vorrei
sistemare ogni cosa…» (1)

Con i suoi 122 casi di coronavirus e nessun morto, la Cambogia, almeno fino ad ora, è stata risparmiata dal Covid-19. Eppure le scuole sono state chiuse il 16 marzo e non ancora riaperte. Nulla da dire, anzi, queste misure precauzionali hanno senz’altro aiutato a contenere i numeri e nondimeno sta emergendo un effetto collaterale seguito alla chiusura delle scuole.

È aumentato il numero dei ragazzini che, liberi dalla scuola e in cerca di emozioni, si aggregano per consumare le droghe disponibili sul mercato, per la gran parte pillole di metanfetamine. A dire che la prevenzione, pur legittima, alla lunga può portare a conseguenze impreviste. Temo per i miei studenti che dopo una pausa così lunga, non tornino più indietro perché nel frattempo stanno arrotondando con un lavoretto a Phnom Penh o, nella peggiore delle ipotesi, sono finiti in qualche giro losco.

Uno di loro, Sorya, ieri ha avuto un incidente in moto. Si è schiantato contro un camion che non gli ha dato la precedenza. Mi hanno chiamato perché per la rovinosa caduta ha perso conoscenza. La scuola era chiusa ma hanno pensato “Sorya è uno studente del padre”. Conoscono il nostro stile e sanno che per ogni evenienza ci siamo, tanto più per il capo classe, ruolo che Sorya si è guadagnato per la statura prominente e una certa leadership. La scuola ci ha fatti incontrare, le nostre storie si sono intrecciate e senza esitare siamo corsi sul luogo dell’incidente e lo abbiamo trasportato all’ospedale. Non c’è verso, non si riesce a starne fuori. Scatta un’immedesimazione che fa di questi studenti un po’ figli nostri. «Io non so spiegarmi questa malattia… che mi indolora», come se quello studente fosse mio figlio… «e vorrei sistemare ogni cosa»…

Entrati nel compound dell’ospedale di Kompong Cham e seguendo il percorso obbligato che portava alla rampa del pronto soccorso, con la mia vecchia Ford del 2003, ero preceduto da una Toyota Land Cruiser nuova del valore approssimativo di 85000 dollari. In genere sono macchine che solo i medici si possono permettere. Avevo fretta di arrivare alla rampa ma con il suo motore da 6 cilindri e un ampio e luminoso corpo, la Land occupava tutta la carreggiata. Ho tergiversato e alla fine abbiamo disteso Sorya su una barella a rotelle. Nel frattempo anche il medico della Land stava sopraggiungendo. Con una certa insistenza ho cercato il suo sguardo per offrirgli un sorriso e aprirgli il cuore, sapendo che di lì a poco avrebbe dato un occhio al nostro Sorya. E così è stato. Sono straniero e in questi casi è un po’ più facile. Diverso è per la gente comune nel trattare con i medici quando è in gioco la vita dei loro figli.

Provo sempre sulla mia pelle una certa ansia in situazioni simili. L’ansia dei padri e delle madri. Per questo negli ultimi anni ho smesso di occuparmi di persone malate. L’ansia raggiungeva livelli per me ingestibili. Il sistema sanitario precario, la trascuratezza degli ospedali, il difficile rapporto con i medici mi hanno lentamente portato ad occuparmi solo di educazione, scuole e crescita dei ragazzi. Ma a volte proprio in questi “incidenti di crescita”, devo accettare di tornare in ospedale e chiedere, aspettare, pregare, sperare.

Sorya ha ripreso conoscenza quasi subito. Gli esami radiologici hanno rivelato la frattura di due falangi della mano sinistra e un trauma cranico. Rimarrà in osservazione per i prossimi giorni.

In questo periodo con le azioni pastorali ridotte al minimo, torniamo a chiederci il senso della nostra presenza. Penso anche all’Italia, così ricca di iniziative pastorali, prima off e ora on line, dove anche i preti, la Chiesa, le comunità, le provano tutte. Da ora in poi nella riflessione teologica e pastorale sarà d’obbligo dedicare un capitolo all’evangelizzazione dopo il Covid-19.

Eppure ieri all’ospedale, mentre aspettavo che Sorya venisse visitato, pensavo tra me che la Chiesa, anzi il Vangelo, non deve abbandonare le corsie d’ospedale. Sono luoghi privilegiati. E però Sorya stava lì a dirmi che non deve nemmeno abbandonare la scuola e l’educazione. Ospedali e scuole sono ambiti per noi inaggirabili, dobbiamo esseri lì. Sono luoghi che portano le nostre storie ad intrecciarsi. E si evangelizza solo se si ha una storia insieme. Il nostro Dio, quello di Abramo, Isacco e Giacobbe, quello di Gesù, è un Dio di storia, di legami, di alleanze. Di passione reciproca. Di presa in carico. Anche senza soluzione, ma con passione. Perché c’è salvezza solo dentro una storia insieme. Sia questo il primo criterio pastorale del dopo virus: si dovrebbe essere, e forse anche agire (!), in quei luoghi dove la storia si sviluppa e cresce (penso alle scuole) o si consuma e spesso finisce (penso agli ospedali).

Prima di andarmene, ho fatto in tempo ad assistere all’arrivo di un altro giovane. Entrambe le gambe fratturate, rosse di sangue e di terra. E ancora lo stesso anelito. «Io non so spiegarmi questa malattia… che mi indolora… e vorrei sistemare ogni cosa».

 

1. M. Gualtieri, Fuoco centrale e altre poesie per il teatro, Torino 2003, 61

Foto: Flickr / World Bank Photo Collection