«La mia quarantena nella Rsa dei missionari»

«La mia quarantena nella Rsa dei missionari»

Il racconto di padre Luciano Benedetti dalla casa dei missionari anziani del Pime a Rancio di Lecco: «La distanza verso gli altri e l’altare è difficile da comprendere da anziani provenienti da missioni ed epoche ben più pericolose. Ma oggi lo si deve fare per tenere lontana la morte dai giovani, nostra eredità e tangibile discendenza»

 

Padre Luciano Benedetti è un missionario del Pime che ha vissuto a lungo il suo ministero sull’isola di Mindanao nelle Filippine. È stato amico di confratelli che lì hanno donato la vita per il Vangelo. Oggi vive nella Casa del Pime di Rancio di Lecco, la casa di cura dei missionari anziani. Una RSA dunque, luogo quanto mai sensibile nell’emergenza Coronavirus. Così padre Luciano ha descritto la sua quarantena in questa riflessione pubblicata qualche giorno fa sul suo profilo Facebook.

È maggio e piove. L’isolamento a causa del Coronavirus – qui nella casa di cura per i missionari anziani del Pime a Rancio di Lecco – mi costringe a fare i conti con lo spazio e il tempo imponendomi un forzato distacco dal mondo esterno per un ordine morale calcolato a un metro e mezzo di distanza; difficile da rispettare se la memoria e la vista sono corte. Vado fuori dalla portineria per liberarmi dell’ansia che io e gli altri anziani diffondiamo tra le stanze e nei luoghi in comune della struttura. Faccio qualche metro ma poi rientro subito e mi dispiace perché le scarpe bagnano il pavimento appena lavato da una signora delle pulizie dai capelli rossi come quelli delle donne nei quadri dei preraffaelliti.

Prima della pandemia qui dentro la vita sociale e comunitaria teneva distante la vecchiaia, l’infermità e l’handicap mentale, poiché le giornate passavano in un luogo programmato e monitorizzato dove il futuro veniva affrontato con serenità e senza grandi patemi d’animo se non quelli delle diverse sfumature di odori di disinfettanti e differenti modi di ascoltare la Tv, difficile quando la sordità è fatta di indecifrabili parole ovattate da un rumore di fondo che amplifica l’isolamento dal resto della casa; ci si guarda attorno, si vorrebbe aprire la bocca ma non si vuole rischiare l’incomprensione. In ogni caso, qui ci sono anziani missionari da proteggere perché testimoni della tradizione della fede (Sal 44,2), maestri di vita (Sir 6,34-36) e operatori di carità che hanno praticato la giustizia, amato la pietà e camminato umilmente all’ombra di Dio (Michea 6,8).

Poi, come ci è stato spiegato, dai pipistrelli è discesa la malattia, il morbo, il malanno, il contagio che come una piaga biblica ha messo a morte tanti e a rischio speranze di vita e di pensione accumulate con anni di lavoro. Situazione talmente greve che dopo un paio di mesi e in fase due, ci sentiamo ancora ‘deboli e fragili’, citando la preghiera del PIME per esorcizzare il Coronavirus. Insomma, si è incrinato quell’alto standard sanitario e tecnologico su cui avevamo affidato la nostra tenera età e l’immensa fiducia nel mondo moderno per ritornare a qualcosa che credevamo sepolto nelle pagine dei Promessi Sposi (di Lecco) o nei racconti dei ‘nostri’ nonni vissuti un secolo fa, quando l’influenza spagnola si portò via 50 milioni su due miliardi di abitanti del pianeta.

Sono ora dove si percepisce la comune difficoltà di essere in un luogo diverso dal solito, adatto alla diffusione di un virus. Certo si è al sicuro nel lock down del confinamento sociale e tuttavia si percepisce come la morte abbia ripreso il suo brutto vizio di selezionare prima di tutto i deboli e gli anziani: arriverà anche tra noi il Covid19? Moriremo tutti?

Per ora il Covid19 si è fatto strada solo a parole per mezzo dei mass media e degli smartphone, costringendoci a mutare i gesti per proteggerci dal suo travestimento fatto di microscopiche goccioline di saliva che assomigliano molto a palline di dinamite con ipersensibili microinterruttori: se ti toccano le mine scoppiano in sequenze infinite di numeri reali! Altri non sono stati fortunati come noi e ce ne addolora. Perdita di senso, brandelli di fede, vuoti interiori che i preti difficilmente riusciranno a riaggiustare, ma per Dio dovranno tentare di farlo!

Un certo nervosismo lo si percepisce a tavola dove si può avere un risentimento se uno tossisce, starnutisce senza appoggiare, con estrema lestezza, naso e bocca tra le pieghe della camicia tra braccio e avambraccio. Così il cibo servito non sembra quello desiderato anche se ben cotto e in poltiglia macinato per non far soffrire le vecchie e gracili gengive. Una volta instaurata l’ossessione ad una invisibile minaccia addio sonni tranquilli. Tende a mantenersi in modo cronico, peggiorando via via nel corso dei giorni …. manca l’aria! In genere, in questi casi, ci si rende consapevoli delle proprie debolezze emotive e magari soffrire (difficile tuttavia tra missionari di lungo corso) nascosti sensi di colpa per aver forse, inavvertitamente, contagiato il vicino. Solo sparire dalla struttura e riapparire giù al lago (di Lecco) per tossire liberamente, anche sotto la pioggia, potrà far ritornare la pace interiore.

Il fatto poi di non poter concelebrare e ricevere, per alcuni un sacrosanto diritto, l’Eucaristia sotto le due specie, sembra aver impoverito la vita comunitaria. La cosa rimane grave; se non ci si sente sacerdote allungando le mani sul pane e sul vino eucaristico, ore di preghiera in comune, Messe senza stola, decine di rosari, incontri e cibi presi assieme diventano poco più che dei rimedi, artifici forse anche se commemorati con mani ben lavate, per via della forzata convivenza.

Ma forse è un beneficio. Come diceva Pascal, noi viviamo in uno stato di permanente instabilità, ma ce ne accorgiamo solo quando una calamità ci investe frontalmente e cominciamo a dare i numeri! Forse un lungo e obbligato digiuno dall’altare ci permetterà di accedere meglio al sacro nell’altro, mettendoci di fronte al dolore comune; permettendoci di udire meglio il grido sofferto dell’umanità quando tra qualche mese (?) dovremo risollevare più umilmente pane e vino.

Però, suvvia dico a me stesso, sei venuto qua per capire che cosa hai e devi adattarti a qualcosa che prima non c’era. Questa distanza verso gli altri e l’altare bisogna praticarla per rendere migliore e sicura la propria vita e quella altrui anche se difficile da comprendere da anziani missionari esteri provenienti da missioni e epoche ben più pericolose. Oggi, lo si deve fare per tenere lontana la morte dai giovani, nostra eredità e tangibile discendenza. Dovranno percorrere sentieri nuovi o da noi già battuti. Una cosa, comunque, ci renderà tutti uguali: la mascherina. A cui dovremo abituarci e che ci renderà mascherati un po’ tutti, domani, si spera, senza tentare di mascherare intenzioni e speranze di vita.

Una lunga pausa, non piove più e si ode un prolungato suono intermittente; qualcuno in qualche stanza e chissà a quale piano ha premuto per sbaglio il pulsante rosso di richiesta; poi, dopo decine di secondi, quello verde che la annulla; comunque una infermiera vestita di azzurra già accorre …

Intanto ognuno chiede all’altro
onde sapere di sé, di cosa
sia per accadere
ieri domani chissà quando, … (D.M.Turoldo)