I dannati della frontiera

I dannati della frontiera

Migliaia di persone cercano di attraversare ogni giorno il confine tra Messico e USA, ma il presidente Joe Biden ha inasprito le regole per ottenere l’asilo: «A Ciudad Juárez si vive in condizioni disperate», dice Mayte Elizalde, operatrice di Hope Border Institute

«La migrazione non è un piacere, ma una necessità inevitabile»: questa frase del beato Giovanni Battista Scalabrini campeggia su una parete della Clínica Hope, che nella città messicana di Ciudad Juárez offre ogni giorno assistenza medica a decine di uomini, donne e bambini arrivati dopo un viaggio infinito e irto di pericoli attraverso il Centro America con il miraggio di attraversare la frontiera.
Ciudad Juárez, nello Stato settentrionale di Chihuahua, sorge infatti sul confine con gli Stati Uniti: a un tiro di schioppo – mezz’ora di auto sul ponte internazionale Cordova de las Américas, che corre sopra il Rio Grande – c’è El Paso, Texas. Molti dei pazienti della clinica, gestita dall’organizzazione cattolica Hope Border Institute che proprio a El Paso ha il suo quartier generale, sono partiti da Guatemala, Honduras, El Salvador o dal lontano Venezuela, in fuga da violenza estrema, povertà e disastri naturali. E ora che sono a un passo dagli Stati Uniti, pensano che la loro odissea stia finalmente per concludersi.

«Purtroppo non è così», sospira Mayte Elizalde. «Le politiche promosse dal presidente Biden, proprio come quelle del suo predecessore Trump, puntano tutto sulla deterrenza, con il risultato di gettare di nuovo questa gente in situazioni di grave pericolo e sofferenza». Mayte, giovane operatrice di Hope Border Institute, fa riferimento tra l’altro alle restrizioni sul diritto di asilo che a maggio hanno sostituito il contestato “Titolo 42”, la norma anti Covid-19 usata dal 2020 per respingere 2,7 milioni di migranti. Ma, in assenza di misure per affrontare le cause delle partenze, la massa di disperati che tenta la sorte alla ricerca di un futuro dignitoso – proprio come accade da questa parte dell’oceano – non smette di crescere. Tra ottobre 2021 e settembre 2022, secondo i dati della U.S. Customs and Border Protection, gli agenti di frontiera hanno fermato il numero record di 2 milioni e 300 mila migranti privi di documenti. Molti altri erano morti prima di arrivare: solo nel deserto di Sonora si contano ogni anno almeno 350 decessi. E c’è chi annega nel tentativo di attraversare a nuoto il Rio Grande. A fine marzo, invece, un incendio in un centro per migranti a Ciudad Juárez ha causato 39 vittime: «Il Messico riceve ogni mese 30 mila persone respinte dagli Usa, ma a questa gente non viene offerta un’accoglienza adeguata, un tetto, cibo, assistenza», lamenta Mayte Elizalde.
Mayte, lei conosce bene i traumi subiti da chi cerca di varcare un confine senza averne il permesso per legge…
«È così: i miei genitori sono messicani e io e mia sorella minore abbiamo trascorso l’infanzia a Ciudad Juárez. Lì c’era molta violenza, la città in quegli anni era la più pericolosa al mondo e per questo, quando avevo undici anni, abbiamo deciso di trasferirci a El Paso. Io ero felicissima: ero una grande fan di Disney Channel e quando ho visto la nuova scuola mi sembrava proprio come quella in tv! Era tutto bello, scintillante. Ma c’era un problema: mentre mamma e papà possedevano dei visti di lavoro e io avevo documenti americani perché mia madre mi aveva partorita negli Stati Uniti, la mia sorellina di sette anni era priva di un permesso di soggiorno. Così, un giorno che stavamo attraversando il ponte per tornare a El Paso dopo essere stati a Ciudad Juárez dai parenti, siamo stati fermati dalle guardie di frontiera e interrogati per ore e ore. Ricordo questi agenti che chiedevano a noi bambine, in lacrime, perché i nostri genitori ci stessero portando negli Usa, come se fossero colpevoli di qualcosa di brutto. È stato orribile».
E come è andata a finire?
«Lasciarono passare solo me e mio padre, mentre mamma fu rimandata indietro con mia sorella, a cui fu ritirato il passaporto. Così siamo stati divisi. Poi mia madre tornò a El Paso per lavorare lasciando la mia sorellina ai parenti: stava un po’ dagli zii, un po’ dai nonni… Ogni volta che andavamo a trovarla, nel viaggio di ritorno mamma piangeva per tutta la strada. Andò avanti per quasi un anno, finché riuscimmo a ottenere per mia sorella un visto da studente e tornò con noi. Ma per lei quel periodo fu molto scioccante: ancora oggi non ama parlarne e tutte le volte che attraversa il confine viene assalita da forte agitazione, ha una sorta di stress post traumatico legato a quell’esperienza».
Oggi lei lavora con Hope Border Institute: quali sono le vostre attività?
«Sul fronte dell’impegno umanitario, a Ciudad Juárez gestiamo la Clínica Hope, che è uno dei rifugi per migranti più grande della città, e la Casita Construyendo Esperanza, per donne che hanno subito violenza. Insieme alla diocesi di El Paso poi, grazie al supporto del vescovo Mark Joseph Seitz abbiamo lanciato il Border Refugee Assistance Fund, che sostiene le attività di diverse parrocchie e realtà cattoliche in risposta ai bisogni umanitari di base, materiali e psicologici, delle persone respinte in Messico. Negli Usa, invece, oltre al lavoro di ricerca e documentazione sulle cause delle migrazioni, ci concentriamo sull’advocacy politica e sulla sensibilizzazione dell’opinione pubblica per creare una cultura di solidarietà in questa terra di confine».
Che cosa chiedete alla politica?
«Che cambi una serie di misure volte solo a scoraggiare l’immigrazione, con l’unico risultato di peggiorare la crisi umanitaria in corso appena oltre la nostra frontiera. Ora l’amministrazione Usa ha annunciato di voler aprire nuovi centri di identificazione in Colombia e Guatemala: speriamo che non sia un modo per militarizzare il percorso aumentandone i pericoli. Anche l’introduzione di una app per il cellulare come unico strumento per richiedere asilo sta dando grossi problemi: le persone hanno pochissimo tempo per inserire i propri dati, le disponibilità per i colloqui di verifica si esauriscono in fretta e spesso ai membri della stessa famiglia vengono assegnati appuntamenti a chilometri di distanza… Inoltre, secondo le nuove regole, per chiedere asilo negli Stati Uniti bisognerà dimostrare di non averlo ottenuto in uno dei Paesi di passaggio: ma questo spingerà le persone a cercare altri canali, sempre più pericolosi, per arrivare qui».
Qual è invece il vostro appello all’opinione pubblica? Poche settimane fa a Brownsville, sul confine messicano, un uomo su un Suv ha investito un gruppo di richiedenti asilo venezuelani provocando sette morti…
«Abbiamo appena pubblicato un rapporto che spiega come nei Paesi di partenza dei migranti ci sia così tanta povertà che la gente non ha nemmeno da mangiare, o situazioni di conflitto o di violenza politica. Tutto questo mentre si vivono i gravi effetti del cambiamento climatico che si ripercuote sulle possibilità di sostentamento delle persone: in molte aree non è più possibile vivere di agricoltura e gli investimenti previsti per creare nuovi posti di lavoro non sono mai stati realizzati. Noi vogliamo spiegare al pubblico che migrare non è una scelta fatta a cuor leggero ma un obbligo, esortare gli americani ad aprire gli occhi su ciò che succede altrove per essere più empatici con chi arriva qui. Soprattutto, ci impegniamo a costruire solidarietà in questa peculiare terra di confine, dove la cultura e gli abitanti sono così simili che noi chiamiamo El Paso e Ciudad Juárez “città sorelle”. Non possiamo voltare le spalle a chi bussa alla nostra porta: hanno sofferto abbastanza, non carichiamoli di altro dolore».

 

La clinica per migranti gestita da Hope Border Institute a Ciudad Juárez