Giancarlo Bossi, l’uomo del «punto e basta»

Giancarlo Bossi, l’uomo del «punto e basta»

La morte di padre Giancarlo Bossi, missionario del Pime nelle Filippine per oltre trent’anni, che nel 2007 era stato rapito dai fondamentalisti islamici e liberato dopo quaranta giorni di prigionia. o ricordiamo pubblicando l’introduzione al volume «Rapito» (Editrice Emi) che racconta la sua storia

 

«Punto e basta». Padre Giancarlo lo ha ripetuto più e più volte nel corso delle conversazioni da cui sono nate le pagine che seguono. «Punto e basta». Più che un ritornello, un marchio di fabbrica. Che dà la cifra dell’uomo, lo spessore spirituale di un missionario trovatosi, suo malgrado, sotto i riflettori della cronaca.

Con quel «punto e basta» padre Bossi ha suggellato racconti di missione e ricordi personali, ha buttato lì frasi tanto lapidarie quanto provocatorie, ha chiuso – come improvvise rasoiate – analisi e ragionamenti. «Punto e basta». Lo ha detto con voce leggera, quasi sussurrata, in aperto contrasto con il suo aspetto fisico: un metro e novanta per 90 chili e passa (ma i suoi ex compagni di seminario giurano che sia arrivato a 130).

«Punto e basta». C’è tutta la concretezza tipicamente lombarda in quelle parole, c’è il pragmatismo del contadino avvezzo all’essenzialità, l’allergia ai ragionamenti troppo complicati, ai distinguo troppo sottili. C’è semplicità evangelica dell’uomo, che spontaneamente cita i passi più esigenti e provocatori della Scrittura e li ripropone in maniera diretta, volutamente sine glossa.

Il «punto e basta» di padre Giancarlo non è l’ultimatum di chi pretende di imporre l’ultima parola. Piuttosto, è il segnale che certi argomenti – la vita cristiana in primis – richiedono poche parole. Dopo di che è (o dovrebbe essere) il turno dei fatti. I discorsi lasciano il tempo che trovano, conta molto di più rimboccarsi le maniche.

Per capire padre Giancarlo Bossi – l’uomo del «punto e basta» – occorre partire dalla sua Abbiategrasso. Anzi: da Castelletto, una frazione del paese (oggi 30 mila abitanti) adagiato lungo il Naviglio. Siamo nella Bassa milanese, una manciata di chilometri a sud del capoluogo. Ma il panorama è assai diverso da quello della capitale della moda e dell’editoria, la “Milano da bere” cara ai pubblicitari. Lo sguardo si stende ancora su distese verdi, campi coltivati a granoturco e riso.

Il «punto e basta» di Bossi affonda qui le sue radici. In una terra di cristianesimo popolare, fatto di carità spicciola, di solidarietà operosa. L’ambiente contadino ha plasmato l’uomo e il missionario. La riprova? Il giorno di Ferragosto, a poche ore dall’accoglienza festosa del paese, è in una cascina di Abbiategrasso che il clan Bossi si è trovato a festeggiare il ritorno del Giancarlo, attorno a una tavola imbandita con l’immancabile casuoela e altre specialità tipiche.

Contadino, figlio di contadini (e contento di esserlo), è diventato missionario ed è finito in una terra di contadini. Se solo arrivasse l’assenso dei superiori padre Bossi si insedierebbe volentieri in un villaggio della campagna filippina (il più piccolo e remoto possibile) per condividere la vita della gente, diventare uno di loro e «gridare il Vangelo con la vita», in uno stile di semplicità estrema. Al modo di Charles de Foucauld.

Viene in mente un dialogo di È mezzanotte dottor Schweitzer, un classico di Gilbert Cesbron: «Fra tutti i missionari, tu sei quello che conta meno conversioni al suo attivo. E dunque?», dice il comandante Hervé Lieuvin a padre Carlo de Ferrier. E il religioso risponde: «Fraternizzo… Non insegno loro nulla, provo che stiamo tutti figli in Dio!». Leuvin, di rimando: «Non otterrai nulla se non ti fai… Leblanc direbbe: temere; io dico: rispettare…». Padre Carlo: «Io dico: amare… Lascia andare! Io preparo la terra… altri semineranno.. altri ancora mieteranno. Si fa del bene nella misura di ciò che si è (corsivo nell’originale – ndr). Occorre che lavori ancora alla mia conversione personale prima di pretendere…».

Padre Bossi ama raccontare un aneddoto che ha segnato l’avvio della sua missione a Mindanao: un ragazzo, al quale aveva regalato una caramella, la rompe con un sasso e ne distribuisce una parte ciascuno agli amici. «Quel gesto mi costrinse a riflettere. Cosa ci faccio qui, io missionario, se questa gente già pratica la solidarietà?». La risposta è la stessa del padre Carlo tratteggiato da Cesbron: esserci, testimoniare con la vita l’amore di Dio per tutti, condividere nella semplicità e nella quotidianità. Il modo migliore per far breccia nei cuori, per far sì che il seme del Vangelo metta radici profonde. Senza fretta, con infinita pazienza…

In missione, il contadino padre Bossi lo aveva già fatto per un periodo. Poi è stato chiamato ad altro. E lui ha obbedito, sebbene il cuore lo indirizzasse altrove. Ma l’habitus del contadino – l’essenzialità e la cordialità dei rapporti, la franchezza ruvida unita all’altruismo spontaneo – è rimasto. Intatto. E ha forgiato lo stile missionario di padre Giancarlo certamente più di ponderosi saggi di teologia. La sua struttura umana è quella di chi si guadagna il pane con il lavoro: fin da giovane Giancarlo andava a lavorare d’estate per pagarsi studi e vacanze. Il seminario ha fatto il resto, levigando una roccia già salda.

L’uomo del «punto e basta» è l’ultimo che avrebbe voluto un libro su di lui. Chi conosce bene padre Giancarlo – la sua ritrosia a scrivere, la diffidenza istintiva per tutto ciò che ha che fare con la visibilità – si meraviglierà non poco di vedere un volume a sua firma. Ma alla Provvidenza dev’essere sembrata un’occasione rara quella di rendere un uomo così poco “appariscente” protagonista del sequestro di missionari più mediatico degli ultimi anni. Ironia della sorte, il compito di diffondere un messaggio nel segno della condivisione, del rispetto reciproco, dell’amore è toccato a un missionario che porta lo stesso cognome di un noto politico avvezzo a sparate razziste e xenofobe. Mera casualità, dirà qualcuno. E se fosse l’ennesima mossa della Provvidenza, che gioca a sorprenderci più di quanto riusciamo ad ammetterlo?

A padre Giancarlo – va detto – è costato raccontarsi. Dopo aver subìto l’assalto di taccuini e telecamere, la prospettiva di sottoporsi nuovamente a una serie di interviste non gli ha fatto fare salti di gioia. «Vi alter sii mat» (voi siete matti), s’è lasciato scappare più volte nelle chiacchierate con chi scrive e la redazione di Mondo e Missione. Non era finta umiltà. Dietro la sua ritrosia c’erano il pudore del missionario che chiede solo di lavorare a servizio del suo popolo, lontano dal clamore. E – ancora una volta – la sapienza del contadino, abituato alla discrezione.

Alla fine si è rassegnato. «Ho pensato che forse Dio ha permesso che rapissero me per valorizzare le tante persone che, come me, hanno sempre lavorato nel silenzio e nel nascondimento. Io sono diventato famoso solo perché sono stato rapito. Ma, come me, ci sono tante altre persone eccezionali che lavorano in silenzio e che nessuno conosce».