Padre Francesco Rapacioli: «La nostra missione: unire il mondo»
Il Pime ha da qualche mese un nuovo superiore generale. In questo ottobre in cui la Chiesa mette al centro la dimensione dell’annuncio, padre Francesco Rapacioli racconta le sfide e le priorità per l’Istituto. Ascolta anche il PODCAST
Ha un sapore particolare per il Pime questo mese di ottobre che – come ogni anno – vede la Chiesa mettere al centro la dimensione della missione: siamo nell’anno del Giubileo che invita tutti a riscoprire la speranza nella testimonianza cristiana; c’è un nuovo Papa che viene dall’esperienza di tanti anni vissuti come missionario in Perù; ma anche il Pime ha appena attraversato un passaggio importante con l’Assemblea generale che ha eletto un nuovo superiore generale, padre Francesco Rapacioli, 62 anni, missionario in Bangladesh.
Ed è con lui che in questa prima intervista a Mondo e Missione vogliamo riflettere su alcune priorità del cammino dei missionari oggi. A partire proprio da quelle indicate da Papa Leone XIV che lo scorso 12 luglio a Castel Gandolfo ha incontrato i missionari del Pime. «Prima ancora di quella giornata ci ha mandato anche una lettera bellissima – racconta il nuovo superiore -. Ci ha indicato un programma molto preciso: l’annuncio del Vangelo, certamente, ma accompagnato dal servizio alle povertà, alle solitudini. E poi gli aspetti del dialogo e della promozione della pace, che lui ripete spesso. Testimonianza di Gesù, diaconia e incontro con tutti: in fondo sono proprio le tre direttrici in cui è riassunta la visione della Chiesa del Concilio Vaticano II».
Su quali di queste dimensioni il Pime è chiamato a crescere di più?
«Una crescita importante c’è già stata: fino a qualche anno fa, le esperienze di dialogo interreligioso non erano una priorità così esplicita nella nostra attività missionaria. Erano l’impegno di qualcuno, ora mi sembrano un’attenzione di tutto l’Istituto. Dalla Thailandia, per esempio, mi raccontavano di un monaco che è venuto a ringraziarci perché alcune nostre iniziative hanno aiutato anche le comunità buddhiste ad avvicinarsi tra loro. È proprio così: aiutare a mettere insieme persone, esperienze, risorse è qualcosa che ci appartiene come Chiesa cattolica e come Istituto. Ed è un compito che abbiamo anche nel servizio alle Chiese locali. In Asia, per esempio, le minoranze cristiane fanno spesso fatica a intraprendere un cammino di incontro con persone che appartengono ad altri gruppi. Ma questo atteggiamento non è così diverso da quei cristiani che anche qui in Italia rischiano di non vedere l’altro: promuovere la pace, come dice il Papa, è una dimensione centrale nella coscienza della nostra fede. E noi missionari dobbiamo essere profeti di questo».
Il Pime oggi è presente in tutti i continenti. Tra questi l’Asia resta un orizzonte privilegiato?
«Su sette regioni in cui sono suddivise oggi le nostre missioni, quattro sono in Asia: già questo dice una storia e una preferenza, che non escludono però il resto. Tra Cina e India, vivono ormai tre miliardi di persone e non è solo una questione di numeri: nella cultura, nel modo di pensare, il cristianesimo rimane minoritario. Sperimentiamo anche delle chiusure: in India, ad esempio, c’è stato un ulteriore giro di vite. Tutto questo ci chiede un’attenzione particolare; però possiamo davvero pensare che Algeria e Tunisia, ad esempio, siano contesti meno importanti dal punto di vista missionario? Sono posti in cui non si può fare praticamente nulla in termini di attività sociale, ma che ci fanno riflettere su che cos’è davvero la missione. Ci fanno capire che annunciare il Vangelo non è fare tante cose, ma rimanere tra la gente. Pensiamo anche alla stessa Italia: le vecchie distinzioni non reggono più, la missione oggi ha un volto globale. Anche tutto quello che facciamo qui deve essere concepito come occasione di annuncio del Vangelo».
Alla vostra ultima Assemblea la metà dei missionari presenti non era nato in Italia.
«Una cosa che ci siamo detti è l’importanza che ciascuno resti radicato profondamente al suo background. L’italiano porta in missione l’esperienza di Chiesa da cui proviene, ma anche chi viene dal Ciad deve condividere la sua. Poi, certamente, ognuno la coniugherà con la cultura del Paese a cui è inviato; ma le radici sono importanti. Stiamo vivendo il passaggio da una visione fondativa della missione a un’altra ministeriale, più orientata al servizio. Le Chiese che ci accolgono hanno meno bisogno di strutture e più di progettualità pastorale. È un discernimento in cui chi proviene da altri contesti ecclesiali può aiutare molto. Un indiano, un camerunese e un italiano non hanno lo stesso modo di concepire la missione. Ma tra noi siamo confratelli che operano nello stesso Paese, in un progetto condiviso anche se non uniforme. Insieme, ma alla maniera del Pime…».
In che senso?
«Nella nostra storia una parola chiave è sempre stata “secolarità”: non siamo religiosi, ma sacerdoti (o missionari laici) diocesani. Lo stile di convivenza non è quello degli Istituti religiosi: preghiamo il più delle volte singolarmente, spesso viviamo da soli, il nostro ministero non è generalmente condiviso con altri confratelli nella stessa realtà. Qualcuno vede in questo un disvalore, ma non è così: è una modalità diversa di servire. Ed è orientata a lasciare che siano le esigenze della missione – e non le nostre dinamiche – a determinare la modalità di porsi in un determinato contesto».
Quali sono oggi gli orientamenti del Pime sugli ambiti di presenza da privilegiare nelle realtà missionarie?
«Rispondo con un esempio: alla scorsa Assemblea avevamo discusso se in una determinata città dell’India non valesse la pena di lasciare alla diocesi locale la gestione di una parrocchia che ha ormai cinquant’anni ed è una realtà solida. Non dovremmo spostarci in un’area più periferica? Giustamente, però, qualcuno ha fatto osservare che dalle aree rurali sempre più giovani si stanno spostando proprio verso quella città, dove vanno a studiare o a lavorare. Alla fine, abbiamo confermato quella presenza, perché è in un crocevia pieno di gente da incontrare. Lo stesso discorso vale in Bangladesh per la missione nella zona industriale attorno a Dacca. Non dobbiamo cercare una periferia astratta, ma i posti dove le persone vivono e sperimentano le situazioni di emarginazione peggiori».
Come vede la collaborazione con le Missionarie dell’Immacolata?
«Con loro c’è un cammino privilegiato. Una collaborazione, ma con molta libertà perché è giusto che ciascuno abbia le sue priorità. Ma lavorare insieme è importante anche per la complementarietà fra lo sguardo maschile e quello femminile. Le suore svolgono il loro ministero in contesti a volte diversi dai nostri: pensiamo, ad esempio, al loro rapporto con le famiglie nei villaggi. Collaborazione come sensibilità, allora, ma anche come aiuto alla riflessione».
In che modo in Italia l’Istituto può farsi promotore di una cultura solidale e accogliente?
«Chi oggi parla in Italia di solidarietà, migrazioni, diritti umani, minoranze, anche se non pronuncia esplicitamente il nome di Gesù, svolge un’attività missionaria. Parla di quella forma di comunione e di coesistenza che in nome del Vangelo noi cerchiamo di promuovere. In questo, anche il compito dell’informazione missionaria è essenziale: chi altro parla oggi di un Paese come il Myanmar? Riportare all’attenzione della società tematiche dimenticate, scomode, che non vogliamo più affrontare, è una forma specifica di animazione missionaria. Un modo anche questo per trasmettere la fede».
In questo mese si tiene a Torino il Festival della missione sul tema “Il volto prossimo”. In chi si incarna oggi questo volto?
«Non so come sia stato scelto questo tema, ma per me oggi il “volto prossimo” è soprattutto quello dell’immigrato. Viviamo un cambiamento epocale:
l’Italia sta cambiando e questo avverrà che noi lo vogliamo oppure no. Può essere solo la paura a guidarci? Perché non chiederci invece: che tipo di società possiamo costruire insieme? Che cosa ci può unire? Noi missionari abbiamo scelto di andare in contesti diversi dal nostro, queste stesse persone le abbiamo incontrate altrove, abbiamo un’esperienza di secoli con altre culture: non possiamo avere anche noi paura di fronte all’immigrazione».
Quale messaggio vuole inviare ai tanti “amici” del Pime? Donatori, sostenitori, giovani, volontari, lettori…
«Sono tutte persone che ruotano attorno a noi, ma ad attirarli è la missione. Sono convinto che se tanti continuano a frequentarci è proprio perché non li leghiamo a noi, ma a qualcosa di più grande. Che cosa mi aspetto da loro? Che soprattutto chi ha fatto un’esperienza con noi, la metta in gioco in una maniera un po’ più significativa anche qui Italia. Continuino a pensare e a voler trasmettere l’idea di un mondo e di una società diversi. Perché davvero lo sguardo della missione può offrire un contributo originale alla riflessione sul nostro Paese. E in questo percorso i laici che l’hanno scoperto con il Pime devono essere in prima linea».
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