Questa vita che non possiedo

Ucciso l’11 aprile di quantarant’anni fa, padre Tullio Favali, missionario del Pime martirizzato nell’isola di Mindanao nelle Filippine, continua a restituirci un messaggio di grande attualità, per la sua testimonianza accanto a popolazioni oppressione e vittime di violenza e per il suo impegno a favore della giustizia
Tullio era entrato nel seminario diocesano di Mantova da piccolo ed era arrivato alla soglia dell’ordinazione – mancava solo un anno e mezzo – quando decise di intraprendere un personalissimo percorso di confronto con la vita. Era il periodo della sua giovinezza, ed erano gli Anni Settanta: Tullio scelse di viverli davvero, ed è importante capire bene quegli otto anni in cui egli prestò il servizio militare, scegliendo esplicitamente la rinuncia a ogni privilegio, e passò da un lavoro all’altro, tutti molto umili e spesso in condizione di sfruttamento. Tullio vuole condividere la vita della gente e il duro lavoro, ma rifiuta l’ideologia violenta e contestataria. Non perde la fede, la vive nel modo più semplice e diretto, attivandosi nella sua parrocchia di Saletto e rifuggendo dalle spiritualità borghesi, emotive e individualiste.
Otto anni di realtà portano frutto: Tullio lo descrive in una lettera con la quale nel 1978 chiede di essere ammesso al Pime: uno scritto di disarmante sincerità, in cui descrive quel periodo di «verifica del problema affettivo, di ricerca di indipendenza e di vita autonoma al di fuori di un ambiente protettivo e poi l’esigenza di concretezza e di azione, l’insofferenza per un lavoro strettamente intellettuale, la paura di incarnare la figura del prete, conscio dei miei limiti, il sentirmi disarmato di fronte a un mondo potente che travolge, non possedere cuor di leone capace di imporsi sugli altri». Tullio ritrova la chiamata a essere prete di Gesù – «la sostanza della mia vita» – a un livello molto più consapevole e maturo, avendo sperimentato la «solidarietà con gli ultimi nel condividere la durezza della vita». È il Tullio che abbiamo conosciuto negli anni del seminario di Monza (1978-1981): un giovane sincero, umile, sereno, maturo e perciò capace davvero di rimettersi in gioco. Di lui ci rimane impresso quel sorriso splendidamente autentico, così in contrasto con le tristi arrabbiature di tanti altri allora.
Nell’isola di Mindanao, nelle Filippine, Tullio si trova in una situazione terribile di oppressione, ingiustizia, violenza e paura. In quel contesto egli vuole essere un prete per la sua gente. Nelle sue lettere si esprime con una chiarezza insuperabile, ed è giusto lasciare spazio alla sua suggestiva lezione di sacerdozio messo in pratica: «La Chiesa si fa solidale ed alza la voce di protesta, in difesa degli oppressi. Spesso i poveri e gli indifesi trovano unico appoggio e sostegno nella Chiesa, che si muove tra molte difficoltà e con poco risultato, dovendo affrontare un potere troppo forte e corrotto. Siamo dunque un segno di speranza e promotori della giustizia… C’è bisogno di un risanamento generale, che richiede molto tempo, attraverso un’educazione ai valori umani, ai diritti fondamentali dell’uomo, alla giustizia. Senz’altro questo è uno dei nostri intenti, come preti. Il nostro lavoro pastorale si svolge tra la gente di condizioni più umili e il nostro stile di vita tende a uniformarsi allo stile semplice ed essenziale della gente comune, (…) e ciò come scelta di vita e non semplicemente condizione sofferta e subita. Mi accorgo che il prete gioca un ruolo importante e che la gente si aspetta molto da lui. È una persona a cui fanno riferimento per ogni bisogno e necessità. Auguro a me stesso di potermi sentire sempre più partecipe e coinvolto nel cammino di questo popolo duramente provato dalla sofferenza».
Tullio è un prete che si emoziona per la sua gente: «La prima volta che ho fatto il funerale a un bambino di pochi mesi, mi sono “immagonato” e a fatica ho terminato la Messa, dalla commozione». La vita dura del popolo gli insegna molte cose: «La vita e la morte si intrecciano, come esperienza quotidiana, e ci danno una concezione più realistica e più vera di noi. Ci ridimensiona dalle nostre pretese e dalle nostre vanaglorie e ci educa al senso del limite e della gratuità. La nostra vita è un dono, che ci è dato da amministrare, ma non da possedere».
Tullio fu assassinato da fanatici sostenitori del regime dittatoriale di Marcos, che vedevano i preti impegnati per la giustizia sospetti di simpatia per il comunismo. Eppure Tullio – noi l’abbiamo conosciuto bene – era totalmente estraneo all’ideologia, era prete e basta, prete di Gesù per il suo popolo sofferente: «Non mi resta che immergermi in questo mondo e camminare a fianco di questa gente, nella comunione fraterna e condivisione. Il lavoro è tanto e il compito affidatoci è grande: però non siamo soli, un Altro ci sorregge e viene incontro alla nostra debolezza».
Quando nella primavera del 1986 ho scritto la vita di Tullio per la “tesina” del diploma di teologia, ho avuto il privilegio di intervistare la mamma, la sorella e tanti suoi amici. Ho potuto leggere tante sue bellissime lettere. In una scritta alla sorella Letizia ho trovato questa preghiera, che a Tullio era uscita di getto, segno che era animato da una sincera vita interiore. L’ho scelta per il cartoncino della mia ordinazione sacerdotale e desidero riproporla: c’è molto della bella sensibilità di Tullio e di come viveva la sua missione: «Dacci, o Signore, la forza di rinnovare ogni giorno il nostro impegno, dacci il coraggio di continuare nei momenti di oscurità, illumina le nostre menti perché possiamo trovare le vie migliori per arrivare al cuore dei nostri fratelli. Mantienici svegli perché siamo tentati di adagiarci. Dacci la passione per gli altri anche se ciò comporta maggiore sofferenza. Grazie, Signore, per questa giornata, per le persone che ho incontrato, per le cose che ho scoperto. Affido a te le mie preoccupazioni e la mia gente, con tutti i suoi problemi. Ti chiedo di poter rispondere alle tue aspettative e a quelle della gente».
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