L’India in ginocchio per il blocco

L’India in ginocchio per il blocco

Con un reddito pro-capite giornaliero di 100-300 rupie – tra 1,2 e 3,6 euro al giorno – la maggior parte dei lavoratori del settore informale già in condizioni normali ha appena di che nutrirsi. Oggi non ha più nemmeno quello. E un test per il coronavirus si paga 4500 rupie

 

«È importante formulare una strategia comune di uscita per assicurare una ripresa programmata della socialità alla fine del blocco». Nel discorso tenuto ieri al suo gabinetto il primo ministro indiano Narendra Modi non ha respinto l’idea di un’attenzione particolare agli ultimi dell’India in una situazione che con ogni probabilità li renderà ancora più deboli. Ma non ha nemmeno segnalato politiche precise a loro tutela, come invece molti chiedevano.

Il piano governativo per l’emergenza Coronavirus – che nelle tre settimane di blocco del Paese a partire dal 25 marzo impiega risorse ingenti (pari per ora a 22,5 miliardi di dollari) per garantire cibo e beni necessari a 800 milioni di indiani, insieme a piccole elargizioni in denaro ove indispensabili – si sta confrontando con le difficoltà dell’approvvigionamento di derrate alimentari. E ha di fatto incentivato l’esodo dei lavoratori migranti dalle città verso le aree di provenienza. Un evento spontaneo iniziato nello scorso fine settimana e avvenuto senza che chi partisse potesse disporre dei mezzi di trasporto e di servizi di supporto essenziali. Si è così trasformato in una migrazione disordinata, perlopiù a piedi, e con gravi rischi di trasmissione del contagio fuori dai focolai già individuati.

Prima ancora della diffusione della pandemia – che nel Paese ha provocato a sabato 4 aprile 3.082 casi di contagio e 86 morti segnalati ufficialmente – a incidere sulla realtà e sulle prospettive degli “ultimi” sono soprattutto i rischi che le difficoltà nella distribuzione di generi di prima necessità e la mancanza di fonti certe di reddito. Come pure si teme che la carenza di documenti necessari per accedere agli aiuti abbia pesanti conseguenze sull’immenso settore informale di cui fanno parte quasi 140 milioni di migranti interni e su almeno due milioni di senza fissa dimora.

L’Indice multidimensionale della povertà – iniziativa delle Nazioni Unite che individua l’accumulo di fattori come alimentazione, salute, scolarizzazione, igiene e accesso a beni e servizi essenziali – pone nella fascia della povertà ben 369 milioni di indiani. Di questi, segnala la Banca mondiale, 176 milioni vivono in povertà estrema, ovvero con meno di 1,7 euro al giorno.

A rendere più precaria la situazione di emergenza per oltre un quarto degli 1,35 miliardi di cittadini indiani è il fatto che essa è impiegata o dipende dal settore informale, come confermano governo indiano e Organizzazione mondiale del lavoro. Con un reddito pro-capite giornaliero di 100-300 rupie – tra 1,2 e 3,6 euro al giorno – la maggior parte dei lavoratori del settore informale già in condizioni normali hanno appena di che nutrirsi con margini scarsi lasciati a istruzione, abitazione e cure mediche Sono gli stessi dati governativi a segnalare che le famiglie contadine hanno mediamente una disponibilità – tolte le spese essenziali – di 17 euro al mese, spesso utilizzati per restituire debiti.

Mentre le autorità sanitarie cercano di predisporre piani d’emergenza in vista di un possibile dilagare della pandemia, ormai presente in quasi tutti i 36 Stati e Territori in cui l’India è divisa, inoltre i test per la positività al coronavirus sono stati inoltre affidati quasi esclusivamente alle strutture sanitarie private che chiedono il pagamento di 4.500 rupie (52 euro) a test. Un costo inarrivabile per molti in India. E non solo per gli “ultimi”. Nonostante l’estensione due anni fa a 500 milioni di indiani del Piano sanitario nazionale.