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Con il Papa per rialzarci

Monsignor Paul Abdel Sater, arcivescovo maronita di Beirut, parla di una Chiesa che deve rilanciare il suo ruolo di ponte: «Denunciamo ciò che è contro il bene comune»

«Che cosa ci aspettiamo da Papa Leone? Niente! Siamo noi che dobbiamo darci da fare per costruire il cambiamento di cui questo Paese ha bisogno». Il commento a caldo di monsignor Paul Abdel Sater sull’imminente, attesissima visita del Pontefice in Libano chiarisce subito lo stile dell’arcivescovo maronita di Beirut, quello dell’impegno in prima persona, della testimonianza coerente di fronte a una società esausta e disillusa. Come quando, dopo la catastrofica esplosione al porto dell’agosto 2020 che investì pesantemente il quartiere, scelse di non ristrutturare l’arcivescovado – «tutte queste finestre collassarono all’improvviso», ricorda indicando con un gesto del braccio le pareti della stanza in cui stiamo conversando – finché non fossero stati prima resi di nuovo agibili gli edifici degli abitanti dell’area.
«Naturalmente – aggiunge subito il prelato 63enne – siamo raggianti per l’arrivo del Santo Padre e anche molto orgogliosi: significa che siamo nel suo cuore e in quello della Chiesa universale, che nel resto del mondo ci sono persone che si preoccupano per noi e pregano per la pace in Libano e per una vita migliore per i suoi cittadini».
Essere un segno di vicinanza e solidarietà con la gente è forse la prima vocazione della Chiesa libanese. Quella maronita – nata tra IV e V secolo e rimasta sempre in comunione con Roma – rappresenta la comunità cristiana maggioritaria nel Paese dei cedri: cattolica ma di rito orientale, del tutto radicata in questa terra ma anche vicina da tanti punti di vista alla sensibilità occidentale. Una posizione di ponte e mediazione che oggi più che mai è chiamata a rilanciare, superando le tentazioni di parte nel cuore di un Medio Oriente lacerato dove la violenza e la costante precarietà soffiano sul fuoco delle divisioni lungo linee identitarie.


Monsignor Abdel Sater, qual è il ruolo dei cristiani nel Libano di oggi?
«Credo che siamo qui per essere il cuore della nazione, per mettere speranza, amore e gioia nella vita dei libanesi. Non è facile fare sentire la nostra voce, ma cerchiamo di ascoltare e di essere vicini alla gente, di dare consigli accettando la libertà degli altri. Come Chiesa abbiamo una grande responsabilità e un ruolo spirituale ma anche morale a livello della società, perché di fronte alle ingiustizie subite dal popolo libanese i nostri leader parlano a nome delle persone, denunciano ciò che è contro il bene comune e il volere di Dio».


Qual è il volto di questa Chiesa che aspetta Papa Leone?
«I nostri fedeli, come tutti i libanesi, subiscono le conseguenze delle crisi ripetute che hanno colpito il Paese, eppure mostrano la loro vitalità in molti modi, in particolare attraverso il servizio sociale e quello educativo. Come arcidiocesi di Beirut abbiamo poco più di 150 sacerdoti che operano in 140 parrocchie, ma anche quattro scuole superiori, una scuola professionale e un’università: sono convinto che quella della formazione sia una priorità per il Paese. Per questo il Fondo diocesano che abbiamo creato per venire incontro ai bisogni materiali dei cittadini finanzia, oltre alle spese mediche, anche le rette per lo studio dei ragazzi, che purtroppo sempre più famiglie non riescono a pagare. E poi, una volta che hanno completato la loro formazione, troppe volte anche i nostri giovani non hanno altra scelta che costruirsi una vita all’estero, visto che qui oggi non esiste un mercato del lavoro. Così, la nostra comunità invecchia. Come Chiesa cerchiamo di offrire opportunità professionali, ma le nostre possibilità sono limitate».


Quali sono le sfide più urgenti che il Libano oggi deve affrontare?
«La prima è la corruzione: tra i politici, nelle amministrazioni pubbliche, nella magistratura e infine nella mente della gente… senza volerlo siamo diventati una nazione corrotta. Ma è ora che ognuno si prenda le proprie responsabilità. A cominciare da un sistema giudiziario giusto: oggi in Libano si può evitare una sentenza avversa pagando. Ma se un cittadino sente di non potere difendere i propri diritti, che futuro può immaginarsi? C’è poi la questione del controllo del territorio, che deve essere ripreso in mano dallo Stato, perché qui restano delle aree che sfuggono alla sua autorità e rimangono ostaggio del fanatismo. Bisogna essere fermi, decisi».


Ma chi può cambiare le cose?
«Ci sono una responsabilità interna, del nostro governo, e una internazionale, perché è ora che alcuni Stati esteri la smettano di sostenere le diverse fazioni esistenti in Libano. E poi è necessario sviluppare il nostro sistema scolastico in modo da formare nuovi cittadini in grado di stare alla larga dal fanatismo, che sia politico, religioso o legato all’area di provenienza delle persone».
La presenza di Papa Leone potrà avere un ruolo positivo?
«Lo avrà perché ci farà sentire la sua vicinanza e l’affetto di tante persone che non conosciamo ma che sono nostri fratelli e sorelle nella Chiesa. Però non ci aspettiamo che possa portare un cambiamento politico: quello dipende da noi, siamo noi che dobbiamo impegnarci per il bene della nostra nazione e per la prosperità della sua gente».

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