Nel Libano ferito che cerca un futuro
La crisi economica, l’esplosione al porto di Beirut, i bombardamenti israeliani: il primo viaggio di Papa Leone fa tappa in un Paese che non trova pace. Reportage tra sfide aperte e voci di speranza
A dare il benvenuto a chi arriva a Beirut dalla strada litoranea investita dall’azzurro intenso del Mediterraneo è un lugubre moncone di cemento armato che campeggia in mezzo al porto. Proprio da lì cinque anni fa, in una calda sera d’agosto, partì l’apocalittica doppia detonazione che investì una vasta area del centro seminando morte – le vittime accertate furono 218 – e distruzione, e lasciando cicatrici indelebili non solo nel fisico di oltre settemila cittadini ma anche nell’animo di un intero popolo.
«Da allora, qualcosa in tutti noi si è spezzato», racconta Nour Nasr, che come giornalista si trovò a seguire l’evento fin dai primi momenti: «Io avvertii l’esplosione dai monti dello Chouf, dove mi trovavo. La chat di redazione improvvisamente impazzì: tutti i colleghi, sparsi in aree diverse del Paese, scrivevano: “Che cosa è stato quel boato? Da dove veniva?”. Ci volle un pezzo per capire che era successo qualcosa di grave nel cuore della capitale». Oggi a Gemmayzeh, uno dei quartieri più colpiti insieme a Karantina e Mar Mikhail, gli edifici sono stati ristrutturati e le vie della movida sono animate come sempre. Ma le conseguenze di quella tragedia sono ancora lì. Non solo perché nessuno è stato dichiarato responsabile dell’incidente che vide lo scoppio di 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio, immagazzinate senza adeguate misure di sicurezza. All’indignazione di fronte all’impunità si aggiunge l’esasperazione che ha spinto tanti abitanti ad abbandonare il Paese: «In molti – racconta ancora Nour – avevano resistito alla crisi economica, aggravata nel 2020 dal default statale e dalla pandemia di Coronavirus, ma di fronte a quella distruzione non ce l’hanno fatta più».
Non è difficile, in questo contesto, capire perché Papa Leone abbia deciso di includere tra le tappe del suo viaggio in Libano, dove arriverà il 30 novembre dopo la visita in Turchia e si fermerà fino al 2 dicembre, proprio il luogo dell’esplosione al porto di Beirut. Lì Prevost, per cui quella mediorientale rappresenta la prima trasferta estera dall’inizio del Pontificato, si soffermerà per una preghiera silenziosa. Sarà un silenzio eloquente, soprattutto agli occhi di chi quella tragedia l’ha vissuta in prima persona. Come suor Marie Joseph Salameh, direttrice dell’ospedale delle Suore del Rosario, un’eccellenza sanitaria spazzata via in un attimo: «Al momento dell’esplosione ero vicino alla finestra – ricorda -. Mi sono ritrovata a terra, mentre nel giro di pochi secondi tutto è stato distrutto. Fin da subito però siamo state a fianco della popolazione e dopo solo tre settimane siamo riuscite ad accogliere i pazienti per la chemioterapia negli spazi dell’ex pronto soccorso demolito».
Sembra un miracolo vedere oggi i diciassette piani del nosocomio completamente ricostruiti: «Abbiamo avuto molto sostegno da benefattori esteri – spiega la direttrice – ma ultimamente altre crisi internazionali hanno avuto la precedenza e fatichiamo a garantire le cure a chi non è in grado di pagare, come facciamo da sempre. Non solo. Molti dei nostri medici e infermieri, di fronte alla svalutazione della lira e al crollo del valore degli stipendi, sono dovuti emigrare per garantire una vita dignitosa alle proprie famiglie». In due anni, secondo le stime, il 10% dei libanesi ha abbandonato il Paese. Tra questi, moltissimi giovani. Trovare un impiego qualificato è difficile – mi ripetono i ragazzi che incontro in contesti diversi: studenti universitari, volontari, insegnanti che hanno scelto di lavorare per stipendi risicati in scuole periferiche, perché «tutti devono avere l’opportunità di istruirsi, anche i bambini delle famiglie sprofondate nella povertà o i figli dei rifugiati siriani».
Delphine Abirached Darmency, videomaker per metà francese, è tra quelli che hanno scelto di restare nonostante tutto: lavora in progetti che mirano a «rendere accessibile la cultura, perché è il motore del cambiamento», e si occupa del recupero della memoria per la costruzione di un’identità inclusiva. A cinquant’anni dall’inizio della guerra civile, che fino al 1990 fece letteralmente a brandelli la società divisa su linee comunitarie ed etniche, l’appartenenza ai diversi gruppi che compongono il Paese resta infatti determinante nella vita politica (nel segno del “Patto nazionale” sancito già nel 1943), ma anche nell’autopercezione di una nazione per molti versi incompiuta. «Molti mi chiedono se è ancora necessario parlare della guerra – racconta Delphine – e io rispondo che rileggere il passato è fondamentale perché i giovani non lo conoscono: a scuola non si studia e i ragazzi crescono con la narrazione di parte che assorbono in famiglia».
Se Giovanni Paolo II definì il Libano “un Paese messaggio” per la capacità di coesistenza delle 18 confessioni religiose riconosciute ufficialmente, la strada verso un pluralismo davvero riconciliato è ancora lunga. Per ora – ed è già tanto, in un Medio Oriente dove alle minoranze vengono spesso negati i diritti civili – esiste una convivenza di fatto, ma la miccia del settarismo è sempre a rischio di riaccendersi.
Michel Helou, 36 anni, è l’intraprendente segretario generale del National Bloc, partito liberale dalla lunga storia di laicità, che ha di recente contribuito a rilanciare nella linea di un Libano “prospero, verde e giusto”. «Vorremmo rappresentare tutti quei libanesi che ambiscono a essere considerati cittadini con uguali diritti e doveri, e non membri di una determinata comunità», afferma Helou, che correrà alle elezioni in programma il prossimo maggio. In gioco c’è «l’opportunità di portare il cambiamento all’interno delle istituzioni». Anche se gli ostacoli sono tanti, a cominciare dalle interferenze esterne: «Qui è normale che i partiti siano finanziati da Paesi stranieri, che poi influenzano la nostra politica».
Le tensioni che condizionano la società libanese si intrecciano con il trauma più recente affrontato dai cittadini del Paese dei cedri, riacceso a ogni boato delle bombe israeliane che piovono sulle aree controllate da Hezbollah, soprattutto nel tormentato Sud. Lungo la strada che dalla capitale scende verso Tiro, gradualmente il panorama cambia. E non solo quello naturale. A spiccare sono le bandiere giallo-verdi del “Partito di Dio” appese ai lampioni e i grandi pannelli, issati a bordo carreggiata o in mezzo alle rotonde nei centri abitati, su cui campeggia il volto del suo carismatico leader Hassan Nasrallah, assassinato l’anno scorso da un attacco mirato dello Stato ebraico.
Dopo il 7 ottobre 2023, la ritorsione israeliana anche qui è stata pesante. Nel mirino appunto Hezbollah, partito politico islamista la cui ala militare, armata dall’Iran, ha a lungo sostenuto Hamas. Dopo la guerra aperta scatenata da Israele per assestare un colpo mortale all’organizzazione e mettere in sicurezza i suoi confini settentrionali, a novembre dell’anno scorso un cessate il fuoco aveva spinto una parte del milione di sfollati interni a tornare nelle zone più colpite, nei villaggi del Sud ma anche nella valle della Bekaa e nella stessa periferia meridionale di Beirut.
Eppure, nonostante Hezbollah sia oggi estremamente indebolito, nelle ultime settimane gli attacchi israeliani si sono intensificati. In gioco c’è la consegna delle armi della milizia all’esercito libanese, pretesa da Tel Aviv ma anche dal Parlamento di Beirut, che ha fissato a fine dicembre il termine ultimo per il disarmo. Perché – come ha chiarito il presidente Joseph Aoun – è ora che sia unicamente lo Stato a riprendere in mano il controllo del territorio.
Una grande questione di politica interna ed estera, dunque, ma anche umanitaria. «Qui la situazione resta critica», racconta Nathalie Kayal, del direttivo della Caritas di Tiro. «Durante la guerra dell’anno scorso abbiamo fatto un lavoro enorme per assistere le famiglie sfollate», racconta la giovane mamma, che a sua volta dovette abbandonare la città di Nabatiye durante la guerra con Israele del 2006. «Oggi tra i servizi che offriamo c’è l’assistenza sanitaria gratuita tramite una rete di medici volontari, che ricevono nell’ambulatorio qui nella nostra sede». L’edificio, a pochi passi dalle antiche rovine romane, è anche vicino alla base dell’Unifil, la missione Onu di interposizione che dovrebbe ritirarsi definitivamente entro l’anno prossimo. «Per noi sarebbe molto grave, perché la presenza dei caschi blu è una garanzia e anche un canale di supporto materiale».
Nella città di Sidone il gruppo giovani della Caritas è particolarmente attivo, tra la consegna dei pacchi alimentari, le forniture di presidi sanitari, le visite agli anziani bisognosi. Ma ciò che più balza all’occhio è un dettaglio: tra i volontari non ci sono solo cristiani (di tanti riti diversi), ma anche musulmani. Un aspetto non scontato, viste le tragedie vissute dalla città durante la guerra civile. Ma i ragazzi non gli danno molto peso: «È normale, noi siamo come una famiglia, siamo tutti qui per dare una mano», dicono. E vedendo la complicità tra un gruppo di adolescenti di cui qualcuna porta il velo e qualcun’altra no, è un po’ più facile credere, nonostante tutte le difficoltà, alle loro parole: «Noi siamo la prova che un Libano diverso è possibile, che per le nuove generazioni sarà naturale non dividersi più tra comunità e fedi differenti».
Articoli correlati
Nelle Filippine, il Natale è una festa di canti
A Betlemme dove si dona la parola

