Sudan, crisi infinita

È la più grave catastrofe umanitaria al mondo. Ma a due anni dallo scoppio del conflitto civile, non si intravedono vie d’uscita. Il Paese è diviso in due e circa un quarto della popolazione è sfollata
Un esodo senza fine. Una catastrofe umanitaria che le parole non riescono a descrivere. A quasi due anni dallo scoppio della guerra civile in Sudan, nell’aprile del 2023, circa 12 milioni e mezzo di persone (su circa 50 milioni) sono state costrette a lasciare le loro case. Più di 25 milioni sono colpite da crisi alimentare acuta. Mentre una nuova ondata di colera si diffonde in maniera preoccupante tra la popolazione che spesso non ha accesso a un sistema sanitario al collasso con l’80% degli ospedali fuori servizio. Intanto non si arrestano stragi e atrocità. E si moltiplicano le accuse di crimini di guerra e contro l’umanità. Si parla di vero e proprio genocidio. I dati delle vittime – circa 28 mila – non rispecchiano neppure lontanamente la vastità del dramma. Perché la maggior parte delle persone muore di fame e malattie, usate intenzionalmente come armi da guerra. O per mancanza di aiuti umanitari, perché i belligeranti li bloccano, ma anche perché la comunità internazionale non sta rispondendo in maniera adeguata agli enormi bisogni. Quella del Sudan è attualmente la più grave crisi al mondo e probabilmente la più sottaciuta. L’unica amara evidenza è che non si intravede una fine.
Ne è convinta anche Irene Panozzo, analista politica, già advisor del Rappresentante speciale UE per il Corno d’Africa, che il Sudan lo conosce molto da vicino, anche per esserci stata parecchie volte, sino a poche settimane prima dello scoppio del conflitto. «Purtroppo in questo momento non si vedono vie d’uscita a breve termine, sia per la situazione militare interna, sia per gli interessi stranieri in campo, sia per la congiuntura internazionale che vede, in particolare, gli Stati Uniti all’inizio di un nuovo mandato-Trump e l’Unione Africana in fase di cambiamento dei vertici».
E mentre la diplomazia arranca, le armi continuano a far sentire la loro voce funesta. Se c’è una cosa che non manca in Sudan – dove manca tutto – sono proprio gli armamenti. Entrambi gli schieramenti in campo, le Sudanese Armed Forces (Forze armate sudanesi, Saf), guidate dal generale Abdel Fattah al Burhan, e le Rapid Support Forces (Forze di supporto rapido, Rsf), le milizie paramilitari del generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, non hanno avuto difficoltà a procurarseli, grazie anche agli alleati internazionali: Egitto, Iran e Russia (che mira ad aprire una base militare sul Mar Rosso) a supporto delle Saf; Emirati Arabi Uniti al fianco delle Rsf.
«Questo conflitto ha rimescolato le carte sia sul fronte interno che esterno – fa notare Panozzo -. I nemici di oggi, Burhan ed Hemetti, sono stati, infatti, alleati nel colpo di Stato che ha portato alla deposizione del trentennale regime di Omar al Bashir nel 2019 e, prima ancora, nel conflitto in Darfur. Insieme, hanno messo fine anche al tentativo di transizione democratica nell’ottobre del 2021, arrestando il primo ministro e altre personalità politiche civili». La loro alleanza, tuttavia, non è durata a lungo. Profondamente in disaccordo proprio su un possibile ritorno alla democrazia, dal 15 aprile 2023, si combattono senza esclusione di colpi, supportati da una galassia di milizie locali. Con il rischio – paradossale e gravissimo – che ora si ritorni drammaticamente al passato. In tutta questa sofferenza e devastazione, infatti, chi sta provando a rialzare la testa è proprio l’Islamic Movement, cuore del regime di Bashir.
«I leader rimasti – spiega Panozzo – hanno favorito un riavvicinamento delle Saf all’Iran. Si tratta di persone che si sono enormemente arricchite durante i trent’anni di regime, controllando ad esempio il sistema bancario. Oggi stanno acquisendo un ruolo sempre più importante dietro le quinte, ma non troppo. Anzi, si stanno dimostrando estremamente efficaci nel fare propaganda e disinformazione. E intanto si fanno strada milizie islamiche radicali e salafite».
Alcuni leader del movimento islamista, così come personalità di spicco delle Saf e delle Rsf, sono stati sanzionati sia dall’Unione Europea che dagli Stati Uniti, in uno degli ultimi provvedimenti dell’amministrazione Biden, che ha anche accusato esplicitamente di genocidio le Rsf e le milizie alleate per la pulizia etnica in Darfur. È quanto denunciano da tempo anche organizzazioni internazionali come Human Rights Watch, mentre la Corte Penale Internazionale sta indagando già da luglio 2023 sui massacri avvenuti in particolare a El Geneina, nel Darfur Occidentale, dove sono state uccise almeno 15 mila persone, principalmente di etnia masalit, poi gettate in fosse comuni.
Ancora oggi il Darfur – già brutalmente devastato nella guerra di vent’anni fa – è al centro dell’attuale conflitto che, però, si è esteso anche ad altre aree del Paese. «Attualmente – ricostruisce Panozzo – le Saf stanno riconquistando la capitale Khartoum, dopo aver ripreso alcune enclavi strategiche, in particolare il quartier generale dell’esercito e la zona delle caserme, che permette loro di poter far passare i rifornimenti. Soprattutto, però, hanno riconquistato lo scorso 11 gennaio la città strategica di Wad Madani, crocevia di importanti assi stradali e capoluogo della regione più fertile e produttiva del Paese».
Ciononostante, le Rsf continuano a controllare gran parte del Centro e del Sud-ovest del Sudan, mentre le Saf si attestano nella parte nord-orientale, dove è stata trasferita anche l’amministrazione di un governo internazionalmente non riconosciuto, che attualmente si trova a Port Sudan, sul Mar Rosso.
Poi però ci sono anche città come El Fasher, che sono diventate il simbolo di violenze, abusi e brutalità senza fine. Situata sulla linea del fronte e sotto assedio da diversi mesi, lo scorso 26 gennaio ha subìto l’ennesimo attacco da parte dei miliziani delle Rsf che hanno preso di mira il Saudi Teaching Maternal Hospital, provocando 70 morti tra pazienti e familiari. Un’altra struttura sanitaria era stata attaccata il giorno precedente. Anche Medici senza Frontiere, una delle pochissime organizzazioni umanitarie che hanno potuto rimanere nel Paese, hanno ripetutamente condannato gli attacchi contro strutture, personale e pazienti dei propri ospedali. Lo scorso gennaio, però, l’organizzazione è stata costretta a sospendere tutte le attività nel Bashair Teaching Hospital, nella parte meridionale di Khartoum, dove si sono «registrati ripetuti episodi di combattenti entrati armati in ospedale minacciando il personale medico».

Entrambe le parti in campo sembrano fare a gara per aumentare le sofferenze dei civili e ostacolare le forniture di cibo e gli aiuti umanitari, che arrivano difficilmente anche nei Paesi limitrofi – in particolare Sud Sudan, Ciad ed Egitto -, dove si sono riversati quasi tre milioni di profughi, in condizioni disperate.
«La situazione è drammatica – insiste Irene Panozzo -. Le pochissime ong straniere rimaste in Sudan vengono messe sempre più in difficoltà. A livello di società civile locale, invece, si sono riorganizzate le cosiddette Emergency Response Rooms, comitati di cittadini, che si danno da fare per portare aiuti di prossimità: hanno pochissimi mezzi, provenienti soprattutto dalla diaspora sudanese, e si prendono enormi rischi. Ma svolgono un ruolo fondamentale, anche se non sono formalmente riconosciute e dunque non possono ricevere ufficialmente finanziamenti. Ma se fossero registrate rischierebbero di venire bloccate. È un paradosso. Nonostante tutto, però, rappresentano oggi una delle rarissime luci di speranza in un Paese avvolto nel buio».
CONOSCERE E AIUTARE
Mercoledì 19 marzo, alle ore 21, al Centro Pime di Milano si parlerà di Sudan, nell’ambito della Quaresima 2025. Saranno presenti Irene Panozzo, analista politica, padre Diego Dalle Carbonare, missionario comboniano a Port Sudan, e Adoum Ismail, rifugiato sudanese in Italia. Intanto, Fondazione Pime continua ad aiutare coloro che sono fuggiti in Ciad con il Fondo S148 Emergenza profughi Sudan per andare incontro principalmente ai bisogni primari di acqua e cibo (dona.centropime.org/emergenzaprofughiSudan/)
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