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Schegge di storia 6 – Fare insieme

“Fare insieme” è il titolo di quest’ultima “scheggia”, perché parla di alcune attività che si propongono di coinvolgere persone di religioni diverse, verso obiettivi comuni. Dunque non iniziative dei cristiani per altri, ma con altri; “fare insieme” è il metodo, ma è anche parte dell’obiettivo. Ci si vuole aiutare a realizzare qualche cosa che è dovere di tutti, e quindi può coinvolgere persone di buona volontà non “a prescindere dalla religione” ma come espressione della propria fede, anche se diversa da quella di chi mi sta a fianco, eppure condivide lo stesso impegno. Padre Sebastiano d’Ambra, un missionario del PIME che ha dedicato tutta la vita al “dialogo” con musulmani nelle Filippine, invita ciascuno a “scavare” in profondità nella propria religione, sicuro che vi troverà motivazioni e sostegno per fare cose buone e avere rapporti positivi con gli altri.

Ricordo padre Enzo Corba, che nel suo desiderio di essere missionario “per tutti”, ha intessuto rapporti di amicizia con alcuni, specialmente musulmani sufi, mettendo in rilievo aspetti comuni nel modo di vivere la propria fede. Mi piace accennare ad un suo amico, ora in cordiale rapporto con alcuni di noi, che parla di una sua “conversione” quando “sentì” profondamente che la serietà della sua fede islamica (e di ogni fede) non sta nel numero di pratiche religiose da seguire puntigliosamente, ma nella qualità del rapporto che stabilisce con Dio. Questa “scoperta” interiore lo ha illuminato e liberato, e ogni anno la ricorda invitando i suoi amici – di religioni diverse – a fare festa con lui, con una serata di amicizia, preghiera, condivisione…

Padre Francesco Rapacioli, a Dhaka, ha fatto tesoro dei nostri rapporti di amicizia con i Fratelli di Taizè; con uno di loro, fratel Guillaume, con un religioso della “Church of Bangladesh” (di matrice anglicana), con suor Annamaria, Missionaria dell’Immacolata e altri ha dato inizio a “Shalom” (pace), un “Movimento per il dialogo” a cui partecipano cristiani di diverse denominazioni. Visitano templi o monasteri buddisti, indù, moschee e sedi di musulmani di varie correnti – inclusi gli “eretici” del gruppo Ahmadyia, spesso aggredito dai fondamentalisti. Ci si apre a rapporti di conoscenza, fiducia, scambio di informazioni e opinioni, e poi… si vedrà: se non si fa un primo passo, il secondo e il terzo non verranno mai. Fra le iniziative di Shalom, ricordo incontri in varie università su argomenti diversi, fra cui il documento che Papa Francesco e Ahmad al Tayeb, Imam della moschea di Al Azhar (Egitto) firmarono ad Abu Dabi nel 2019, invitando le rispettive comunità religiose a vivere in pace e nel rispetto reciproco.

Belli gli “appuntamenti” alla Chiesa Armena, una graziosa chiesa, circondata da un caratteristico cimitero dove su ogni tomba si trovano scritte, in inglese o in armeno, non solo le date di nascita e morte, ma pure il numero di anni, mesi e giorni vissuti dal defunto. La costruì, nella città vecchia, una comunità di armeni – per lo più commercianti – che si estinse gradualmente dopo la proclamazione dell’indipendenza dell’India. Un gruppetto di armeni residenti altrove ne cura ora la conservazione, aiutato da un comitato di chiese cristiane in Bangladesh, che ha accettato questa responsabilità. Lì si organizzano momenti di preghiera, e anche concerti, specie nelle ricorrenze di feste armene, cui “Shalom” prende parte gustando il “respiro universale” del momento.

Padre Francesco Rapacioli è coinvolto anche nel “Circolo delle 12 tappe”, per avviare e sostenere la lotta alle “dipendenze” con il metodo degli “Alcoolisti anonimi”. Ci sono in Bangladesh iniziative (non tutte qualificate) le quali esigono che chi vuole essere aiutato, entri a far parte di comunità residenziali che li assistono, controllano, offrono anche servizi medici e psicologici. Chiedono la decisione ferma di rinunciare alla propria libertà, affidandosi al cammino che viene proposto, rigido e in qualche caso anche vessatorio. Il “Circolo delle 12 tappe” è flessibile, punta molto sulla responsabilità personale, non chiede il distacco dal proprio ambiente famigliare o sociale. E coinvolge ogni categoria di persone che – nella libertà – si aiutano a vicenda a fare e a perseverare (o riprendere) cammini liberanti.

Un altro eloquente esempio viene da fratel Lucio Beninati che, trasferito in Brasile dopo alcuni anni in Bangladesh, si coinvolse nel servizio ai bambini “di strada”. Poi chiese di ritornare, e avviò il “Potosishu Seba Shonghoton” (Associazione di servizio ai bambini di strada). Caratteristiche: seguire i bambini sulla strada, cercando di capire che cosa ciascuno di loro può e vuole fare: se tornare a casa, entrare in una comunità, continuare sulla strada… L’assistenza viene offerta da volontari, che sono per lo più, ma non soltanto, studenti. Perché possano “gustare la gioia di donare”, si impegnano nel progetto, e offrono pure un contributo economico, perché l’iniziativa prosegua senza ricorrere a donazioni provenienti dall’estero. Si organizzano in gruppetti che si trovano regolarmente in luoghi della città frequentati da questi bambini e bambine. Giocano, parlano, offrono piccoli servizi per la salute (medicare una ferita, mettere gocce negli occhi… accompagnare da un medico…) creando un rapporto di fiducia che spesso permette di capire come mai il bambino è finito sulla strada, e non vuole lasciarla; poi, se è il caso, lo si aiuta a fare altre scelte. Fratel Lucio ora è di nuovo in Brasile, ma l’iniziativa prosegue grazie all’impegno di alcuni dei volontari. Il suo successore come coordinatore è Sharmin, un giovane musulmano che – in occasione della morte di Papa Francesco – ha scritto una “Lettera a Papa Francesco” molto bella, che ho ripreso in una “Scheggia di Bengala”. Se non sbaglio, la composizione del gruppo dei volontari di Potoshisu rispecchia la “mappa” religiosa del Bangladesh: la maggioranza dei volontari è di religione islamica, e a seguire ci sono indù e cristiani.

Un’occasione interessante di collaborazione a favore dei giovani e dei poveri si è presentata “per caso” più di venti anni fa, e ha dato il via a un servizio insieme a monaci buddisti, in un’area geografica del sud-est, il Chittagong Hill Tracts, dove il PIME non è mai stato presente. I buddisti in Bangladesh costituiscono circa l’1% della popolazione, poco più dei cristiani, e sono localizzati per lo più nel sud. Culturalmente sono in contatto con Myanmar e Thailandia, paesi a maggioranza buddista.  Tutto è incominciato quando, in un paesino molto remoto di nome Betchara, un bonzo (monaco) della popolazione “Marma”, preoccupato per i bambini che non frequentavano la scuola, si mise a radunarli per portarli ogni mattino alla scuola – in barca – sull’altra sponda del fiume, poi riportarli, nutrirli e farli studiare. L’iniziativa ebbe successo, il numero dei piccoli studenti aumentava, ma… la questua che i monaci fanno ogni mattina per ricevere il cibo dai fedeli non bastava più. Allora il bonzo chiese aiuto a un ex compagno di College, Mongyeo Marma, che aveva un buon impiego a Dhaka. Tante volte avevano discusso su come salvare il loro popolo dall’oppressione della maggioranza, che ignora i loro diritti e problemi, favorisce chi si appropria delle loro terre, tenta di islamizzare tutti e tutto. Vari gruppi tribali avevano sostenuto anni di guerriglia, peggiorando le loro condizioni. Si persuasero che: «Solo persone istruite e motivate potranno, se non salvare le terre, almeno salvare la nostra dignità e cultura». I due amici si diedero da fare e, cercando aiuti, casualmente incapparono nel PIME, attraverso il quale nacque un “gemellaggio” fra la loro e una parrocchia italiana, e una collaborazione con i missionari in Bangladesh, che non offrivano solo aiuti economici, ma valutavano con loro le scelte, i metodi, gli obiettivi, le difficoltà.

Ma dopo meno di un anno, Betchara divenne insicuro a causa di occasionali scontri fra esercito bengalese e ribelli birmani che passavano il confine, e il bonzo fondatore fu trasferito in Myanmar. Un altro monaco, molto stimato, che aveva fondato una pagoda a Bandarban, mise a disposizione un terreno collinare appropriato, a condizione che vi si continuasse l’iniziativa a favore di giovani Marma poveri. Mongyeo accettò, l’appoggio di alcuni del PIME e di benefattori italiani continuò, e si ricominciò daccapo.

Ne nacque una scuola di nome “Hill Child Home”, che accompagna fino alla classe decima circa 140 ragazzi e ragazze, non solo Marma buddisti, ma anche di altri gruppi etnici, cristiani o indù, dei quali un centinaio risiedono nell’ostello annesso. E’ un luogo educativo che dà coraggio, amore per le proprie tradizioni, e dignità a gruppi poveri e trascurati. Nel salone della preghiera e degli incontri, si trovano un altarino del Buddha e un altarino con il Crocifisso e con la Madonna. Occasionalmente, visitatori cristiani assistono alla preghiera buddista, e i ragazzi con alcuni bonzi, assistono alla celebrazione eucaristica, con molto interesse.

Gesù, la sua mamma Maria, e Madre Teresa di Calcutta sono figure famigliari per tutti loro, e noi missionari siamo considerati i loro portavoce. Vi sembra poco?

Più recente e più breve è la storia di Joyjoy, appoggiato da un gruppetto spontaneo di missionari del PIME che operano a Dinajpur, e diretto da Naomi Iwamoto, missionaria laica giapponese inviata e sostenuta da J.O.H.C., un’organizzazione ecumenica del suo Paese che prepara e sostiene missionari laici disponibili a collaborare con attività missionarie. Yoyjoy ha sede in alcuni locali della parrocchia di Suihari, offrendo assistenza diurna a bambini con gravi disabilità mentali, e alle loro mamme. Naomi ha grande competenza, entusiasmo, tenacia, e capacità di coinvolgere molti: l’iniziativa si è fatta conoscere e apprezzare nella zona, e non pochi musulmani la sostengono.

E qui finisce l’ultima “scheggia di storia”… Come spiegai nella prima della serie, si tratta di una “storia a memoria” che certamente ha gravi lacune, imprecisioni, probabilmente errori. Chiedo scusa, ma spero di aver offerto un’idea delle tante prospettive che la nostra missione ha, delle numerose sorprese che ci ha riservato, e del perché riteniamo che essa sia un grande dono che abbiamo ricevuto, aprendoci a sperimentare la bellezza e le potenzialità del Vangelo, la Buona Notizia del Regno di Dio, che “è in mezzo a noi”.

(fine)

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