Aleppo prova a rialzarsi
Nella città siriana devastata dalla guerra e dal terremoto, la piccola comunità cristiana resta accanto ai più fragili: bambini, anziani e poveri. Per contribuire alla ricostruzione non solo degli edifici, ma di vite intere
Girando per le strade di Aleppo, salta subito all’occhio la grande quantità di bambini che lavorano: raccolgono rifiuti, spazzano intorno ai chioschi dove si mangia all’aperto, vendono rose e fazzoletti, trainano carretti di cibo. Hanno sempre la faccia e i capelli impolverati. Anche a mesi di distanza dalla caduta del regime di Bashar al-Assad, la situazione di diverse città siriane continua a essere drammatica, con costi della vita insostenibili per la maggior parte delle famiglie, che quindi sono costrette a mandare i figli a lavorare. Il nuovo governo, guidato da Ahmed al-Sharaa, in passato leader del gruppo jihadista Hayat Tahrir al-Sham (Hts), ha fatto molte promesse, ma permane un clima di attesa e di forte incertezza.
Quella dei bambini di strada è una delle tante conseguenze della guerra civile. Aleppo è stata protagonista di un cruento assedio durato dal 2012 al 2016 e in cui sono morte oltre 30.000 persone. A complicare le cose, nel 2023 si è aggiunto il terremoto, che ha raso al suolo interi quartieri. Eppure, nonostante i combattimenti in città fossero terminati a partire dal 2017, quasi nulla è stato ricostruito dal precedente governo. L’antica cittadella, patrimonio Unesco, è ancora pericolante, mentre per accedere al souq bisogna scavalcare macerie e detriti. Per Jean François Thiry, responsabile dei progetti dell’ong ATS Pro Terra Sancta ad Aleppo, il regime ha voluto punire la popolazione per essersi sollevata contro la famiglia Assad. In prima linea durante il terremoto, per cui ha raccolto molti fondi destinati alla ricostruzione di case ed edifici di culto, oggi l’associazione – sostenuta anche dalla Foindazione Pime – si occupa soprattutto di attività sociali. Gestisce tre centri che accolgono studenti e studentesse adolescenti in condizioni di povertà che vogliono superare l’esame di Stato per accedere all’università. Molti di loro studiano al mattino e lavorano di sera per sostenere le loro famiglie.
La liberazione da parte di Hts è stata accolta con gioia dalla popolazione locale, che però vive ancora un forte trauma: molti giovani che avevano evitato la leva obbligatoria nell’esercito siriano negli ultimi mesi sono tornati ad Aleppo da Idlib, città sotto il controllo di Hts, altri hanno varcato il confine dalla Turchia, mentre parecchi prigionieri politici sono stati liberati. «Molte donne del quartiere sono contente perché i loro mariti stanno tornando, ma in tanti casi le loro storie si rivelano un dramma.
Alcuni uomini usciti dalle prigioni di Assad spesso scoprono che le loro mogli sono state costrette a prostituirsi per sopravvivere. Altri non riescono ad affrontare la realtà dopo anni di prigionia e chiedono di tornare in detenzione perché non ce la fanno a vivere, non sono in grado di lavorare», spiega Jean François Thiry.
La linea del fronte nella guerra tra regime e ribelli si trovava nel quartiere cristiano di Al-Jdayde, dietro alla chiesa greco-ortodossa e vicino alla chiesa maronita e a quelle armene. Tutt’intorno gli edifici sono ancora oggi in parte distrutti dai bombardamenti e in parte crollati, ma c’è una piccola piazza intatta. Quasi tutte le sere un gruppo di bambini musulmani viene qui a giocare a pallone e dicono di andare tutti a scuola al mattino.
Fratel George Sabe, dell’ordine dei maristi, ammette che quello dei minori fuori dal ciclo scolastico è un problema enorme. Insieme al medico Nabil Antaki e alla moglie di quest’ultimo, Leyla Moussalli, fratel George ha dato vita ai “Maristi Blu” (cfr. MM, maggio 2021), un’organizzazione nata nel febbraio 2012 per sostenere la popolazione aleppina e che spesso collabora con Ats Pro Terra Sancta. La loro attività principale oggi è l’accoglienza per 120 bambini della scuola materna, sia cristiani che musulmani, provenienti dalle aree più disagiate della città.
I piccoli hanno così un pasto al giorno garantito, giocano e imparano i fondamenti del vivere insieme attraverso “lezioni di etica”. Non si tratta di vere e proprie scuole, perché nel 1967 il governo baathista decise di rendere pubblica l’istruzione e confiscò alle comunità cristiane la gestione degli istituti scolastici. «Però il nuovo governo ha detto che ci verranno restituite le nostre proprietà», dice fratel George Sabe, anche se niente è ancora certo.
Il nome “Maristi Blu” deriva dal colore delle magliette che i volontari indossavano per essere riconosciuti mentre fornivano aiuto durante il conflitto. «Mentre tutti litigavano per il rosso o il verde nella bandiera siriana, noi abbiamo scelto un colore completamente diverso. Per noi la Siria è blu, nel senso che vogliamo aiutare chi ha più bisogno, indipendentemente dall’appartenenza etnica o religiosa», racconta Adel Jergi, oggi direttore dei programmi dell’organizzazione.
Oltre all’accoglienza dei bambini più piccoli, le iniziative includono, per esempio, un progetto di supporto psicosociale per circa 600 partecipanti di età compresa tra i 6 e i 16 anni, corsi di cucito per le donne che hanno bisogno di imparare una professione o semplicemente per permettere loro di riparare i propri vestiti, laboratori manuali per persone con disabilità, distribuzione di cesti alimentari alle famiglie indigenti e sostegno a circa 250 anziani soli che hanno superato gli 80 anni, un’attività che vede coinvolti anche gli scout.
I maristi, in realtà, erano già attivi prima del 2012: «Nel 1986 avevamo creato un gruppo chiamato “L’orecchio di Dio”, che si occupava dei cristiani poveri, ma poi abbiamo capito che dovevamo fare di più. Così abbiamo aperto i nostri progetti anche alla popolazione musulmana, soprattutto agli sfollati», spiega Nabil Antaki, medico gastroenterologo. «Tutto nasce dai bisogni che vediamo: se c’è un bisogno, partiamo. Anche senza soldi. Contiamo sulla Provvidenza, che finora non ci ha mai abbandonati». Diversi progetti che erano stati aperti durante il conflitto sono poi stati chiusi. «Durante la guerra curavamo gratuitamente i civili feriti, perché gli ospedali pubblici erano sovraffollati. Abbiamo salvato molte vite».
Anche se nelle ultime settimane la sicurezza è molto migliorata, ad Aleppo si registrano ancora parecchi furti e aggressioni. A causa della scarsità di elettricità, è importante arrivare a casa prima che sia completamente buio. I generatori sono troppo cari per la maggior parte della popolazione, per cui quasi tutte le case hanno installato sul tetto un solo piccolo pannello solare. In mezzo alla distruzione totale ogni tanto spuntano le moschee, unici edifici che svettano sopra le macerie: «Il problema è che ricostruiamo le chiese e le moschee prima di ricostruire le persone», commenta Adel, preoccupato per le divisioni tra cristiani e musulmani, così come tra musulmani e le altre minoranze, tutte confinate in un quartiere diverso della città. Il timore è che le separazioni fisiche si solidifichino seguendo le linee immaginarie delle divisioni mentali che impediscono il dialogo. «Ci chiedete della guerra, ma ci sono troppe storie orribili da raccontare. Credo di aver bisogno di essere in qualche modo aggiustato dopo aver ascoltato così tante storie di sofferenza e sopravvivenza», prosegue. «Ogni volta che pensavamo fosse arrivato il peggio, è successo qualcosa di ancora più terribile, come il terremoto. Quando nei mesi scorsi è caduto il regime, non sapevamo esattamente cosa stesse succedendo. Ho chiesto a mia madre e a mia sorella se volevano andarsene. Mia sorella ha risposto che se doveva morire, voleva farlo in casa, non in strada. Così sono rimasto anch’io con loro e mi sono chiesto se sarebbe stato meglio morire per primo o per ultimo. Poi dopo qualche giorno abbiamo visto che le cose stavano migliorando e siamo tornati a svolgere le nostre attività».
Fratel George Sabe racconta l’arrivo di Hts alla residenza dei “Maristi Blu” tra fine novembre e inizio dicembre, sottolineando l’ampia presenza di combattenti stranieri che si sono appropriati della rivoluzione siriana: «I miliziani erano sorpresi di vederci. Non pensavano ci fosse qualcuno nella residenza, ma loro non capivano. Sembravano ceceni, o forse di un’altra nazionalità, non saprei dire con precisione».
Per Nabil, il problema è legato anche alla giovane età: «Hanno vent’anni, ventidue al massimo. Sono cresciuti solo a Idlib, in guerra, senza vedere nessun altro al di fuori della loro cerchia. Nessuna diversità, nessun confronto. È così che nasce l’ignoranza. E l’ignoranza è il terreno fertile dell’estremismo». Antaki parla lentamente, cercando le parole giuste. «Quando non conosci l’altro, lo trasformi in una minaccia. È questa la radice del problema», spiega il medico, che ha rischiato di perdere la moglie durante la guerra civile. Leyla si trovava in cortile e stava preparando da mangiare per i bambini. Si è salvata per pochi istanti: sedendosi per riposarsi, ha evitato un proiettile che altrimenti l’avrebbe colpita in fronte.
«Avevamo la possibilità di andarcene: io mi sono specializzato in Canada, dove con Leyla abbiamo ottenuto la cittadinanza. I nostri figli vivono negli Stati Uniti. Ma siamo rimasti. Perché sentivamo che era la nostra missione». Una scelta di fedeltà anche al messaggio evangelico. «Tutti ci dicevano: “Siete degli eroi”. Ma noi non ci sentiamo così. Abbiamo fatto solo il nostro dovere: aiutare la nostra gente a sopravvivere. E soprattutto, impedire che i cristiani migrassero». Prima della guerra solo ad Aleppo erano circa 150 mila. Adesso ne sono rimasti tra i 25 e i 30 mila. «La Siria è la culla del cristianesimo, è da qui che si è diffuso nel resto del mondo. Anche per questo, vogliamo impedire che altri giovani abbandonino le loro radici».
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