La Liberia perduta e ritrovata di una bambina in fuga

La Liberia perduta e ritrovata di una bambina in fuga

Nel suo libro “I draghi, il gigante e le donne” – uscito in questi giorni in italiano – Wayétu Moore racconta i traumi della guerra e la sua nuova vita negli Stati Uniti, senza perdere le sue radici africane

È il 1989. In Liberia, alla presidenza c’è un sergente dell’esercito, Samuel Doe, che nove anni prima ha rovesciato con un colpo di stato il suo predecessore, collocando in tutte le posizioni chiave membri della sua etnia, i Krahn. Il suo governo corrotto si crea molti, troppi nemici. E si scatena così una guerra civile, destinata a conoscere una prima fase fino al 1997, e una seconda, dal 1999 al 2003. È un copione già visto fin troppe volte in Africa: provocherà oltre 200 mila morti e 2 milioni di profughi.

Nel memoirI draghi, il gigante, le donne”, pubblicato in italiano da Edizioni e/o, la scrittrice statunitense di origine liberiana Wayétu Moore ci racconta quella guerra vista con gli occhi di una bambina di cinque anni che d’improvviso, un pomeriggio, deve lasciare la villetta di famiglia – il padre Augustus è ingegnere e sono benestanti – perché i ribelli che combattono Doe stanno arrivando. La piccola Tutu – questo è il suo diminutivo – insieme alle sorelline Wi e K, al padre e alla nonna materna Ma, che quel giorno era a casa loro, si ritrova nella fiumana di disperati che fuggono per salvarsi la vita. Il suo cruccio, però, è poter rivedere la mamma, Mam, che in quel momento si trova negli Stati Uniti per un master. Nella prima parte del libro, l’autrice ci racconta della fuga verso il villaggio della nonna, filtrata attraverso il suo sguardo infantile. Nella sua mente, Samuel Doe diventa il drago cattivo Hawa Undu che vive nella foresta e il capo dei ribelli è il principe che lo vuole uccidere. E grazie a un padre amorevole e protettivo – il “gigante” del titolo – Tutu e le sorelle vengono messe al riparo dalle brutture della guerra: gli spari che si odono in lontananza diventano “tamburi”, persino i morti sul ciglio della strada sono “persone addormentate”. Poi, un giorno, una ragazzina soldato ribelle viene al villaggio per portarli in salvo da Mam.

Nella seconda parte del libro, la bambina è in America. È circondata dall’affetto di due genitori attenti e affettuosi e dalle sorelle, eppure la guerra è un fardello di cui è difficile liberarsi. Come tutti gli adolescenti, l’autrice deve costruirsi una sua identità che, nel suo caso, non può prescindere dalle radici liberiane, dai nonni e dalla gente che ha lasciato, ma deve al contempo includere il suo nuovo vissuto da americana. Negli Stati Uniti, Moore scopre di essere nera. “In questo nuovo posto che Mam e papà ci avevano detto di chiamare casa, il colore della pelle regnava sovrano, sovrano e al di sopra della nazionalità, sovrano e al di sopra delle storie di vita, e sì, sovrano e anche di sopra di Cristo”, scrive. Crescendo, legge l’entusiasmo negli occhi delle sue amiche afroamericane che fanno il test del Dna anelando ad avere una patria africana idealizzata. Per Wayétu è diverso: “la Liberia viveva con me ogni notte, nei miei sogni, la indossavo sulla mia pelle” ma quella terra amata è anche il luogo da cui è dovuta fuggire. Sono stati “i nostri draghi” – i leader violenti e corrotti – a cacciarla. Samuel Doe non c’è più, ma al suo posto c’è Charles Taylor, presidente dal 1997 al 2003, feroce con la popolazione del suo Paese e accusato crimini di guerra e contro l’umanità per il suo coinvolgimento nella guerra civile della vicina Sierra Leone. I suoi uomini hanno violentato donne, amputato persone, schiavizzato le loro vittime. Oggi Taylor sta scontando una condanna internazionale a 50 anni di carcere in Gran Bretagna.

Chi fugge dalla guerra anela a tornare nella sua terra. Come tanti rifugiati, anche i genitori di Wayétu, appena la situazione lo ha consentito, sono rientrati. Anche l’autrice, rimasta con le sorelle negli Stati Uniti, sente il richiamo del suo Paese. È lì che potrà cercare le risposte sulla sua storia personale e riconciliarsi con il suo sé più profondo. L’ultima parte del libro narra del viaggio in cui recupera il legame spezzato con le sue radici, non solo rivedendo nonna Ma e i genitori, ma riscoprendo da adulta la sua Liberia che, come lei, ha cercato una via d’uscita dal trauma della guerra civile. Il tassello mancante di tutta la storia – come Mam avesse salvato la sua famiglia – chiude la narrazione, offrendo al lettore una figura femminile forte e coraggiosa di madre.

Il memoir “I draghi, il gigante, le donne” di Wayétu Moore è ricco di spunti di riflessione interessanti. Non solo ci racconta la guerra dal punto di vista di una bambina – e già questo lo rende pregevole – ma testimonia di un’Africa lontana dai cliché dei bambini affamati e della gente che vive alla giornata che sicuramente esiste, ma che offre un’immagine distorta e parziale. In Liberia e altrove esistono famiglie come quella di Wayétu, in cui i genitori hanno scelto di far studiare anche le figlie femmine sfidando le convenzioni sociali e in cui un padre sa essere di sostegno alla moglie e ai figli. Famiglie in cui, di generazione in generazione, si cerca di migliorare le condizioni di vita. Peccato che l’avidità, la corruzione e la sete di potere di chi governa porti alla guerra che cancella ogni tentativo di cambiamento, riportando le lancette dello sviluppo indietro di decenni e costringendo le persone alla fuga.

Wayétu Moore non ha perso il legame con la sua terra, ma è rimasta negli Stati Uniti. Ha voluto creare la casa editrice no profit di libri per bambini One More Book, per incoraggiare la lettura dei piccoli nei Paesi a basso tasso di alfabetizzazione e provenienti da culture poco rappresentate. Questi libri raccontano le storie della loro gente, stimolandoli ad amare la lettura: perché i piccoli lettori si appassionano di più a personaggi che somigliano a loro.