Ecumenismo e missione

Ecumenismo e missione

La portata evangelica della testimonianza, a volte sino al dono della vita stessa da parte di cristiani di diverse confessioni, rende visibile il cammino verso la piena unità di fratelli e sorelle

 

Non appaia scontato il binomio “ecumenismo e missione” posto come titolo di questa riflessione. In realtà non siamo ancora completamente usciti dal corrispondente accostamento avversativo: “ecumenismo o missione”. Ancora venticinque anni fa, un missionario cattolico operante da tempo in un Paese africano di antica tradizione cristiana mi confessava amareggiato come il Prefetto della Congregazione romana da cui dipendeva avesse criticato alcune sue scelte pastorali compiute in sintonia con l’altra confessione cristiana presente nel Paese, dicendogli: «Ecumenismo e missione sono alternativi. E voi lì siete in missione!». Erano gli anni in cui, crollati i regimi atei totalitari nell’Europa orientale, la sollecitudine per l’annuncio del Vangelo in società che lo avevano aspramente combattuto per decenni rischiava di mescolare un ritrovato zelo missionario con un più o meno aggressivo proselitismo nei confronti di fedeli già battezzati da Chiese sorelle.

Eppure era proprio lo scandaloso impatto della divisione tra i cristiani in quelle che allora si chiamavano ancora “terre di missione” a innescare, ormai un secolo fa, i primi tentativi di dialogo tra le Chiese. Alla Conferenza missionaria di Edimburgo del 1910, infatti, numerosi rappresentanti di diverse denominazioni protestanti posero le basi del movimento ecumenico. I rispettivi missionari avevano toccato con mano quanto fosse controproducente per l’annuncio della salvezza portata da Gesù Cristo il fatto che ciascuna Chiesa lo proclamasse contrapponendosi o comunque “in concorrenza” con le altre. Addirittura all’interno di una stessa Comunione di Chiese, quella anglicana, coesistevano due organismi missionari distinti, legati l’uno alla corrente anglo-cattolica e l’altro alle comunità più vicine alle istanze della Riforma protestante. Le conseguenze nefaste di questo “vizio originale” sono tuttora riscontrabili nella difficile composizione di legittime differenze teologiche e pastorali in una piena comunione visibile.

Nel corso dell’ultimo secolo poi, il significato dei termini e l’estensione dei rispettivi ambiti di applicazione hanno subìto profondi mutamenti. Cosa intendiamo oggi per missione e per ecumenismo? Per lo meno da quando nel 1943 il cardinale Suhard di Parigi promuove la pubblicazione del libro di uno dei primi preti operai francesi, Henri Godin – dal titolo emblematico La Francia, Paese di missione – e avvia la “Missione di Parigi”, si fa strada nell’Europa cristiana sconvolta dagli orrori della Seconda guerra mondiale la convinzione che, anche nei Paesi e nelle società di antica cristianità, vanno ripensate le modalità dell’annuncio cristiano, rivisitando il concetto stesso di “missione”. Destinatari della missione cessano di essere soltanto le popolazioni di terre lontane, dove il Vangelo non era mai stato proclamato, e diventano anche tanti battezzati che hanno abbandonato la pratica cristiana o le masse che abitano le periferie urbane ed esistenziali e considerano la religione come “oppio dei popoli”.

La riflessione sull’ecumenismo, invece, subisce meno pressioni dalle circostanze storiche e sociali: seppur con alcune incrinature, la secolare ripartizione delle confessioni cristiane prevalenti nei rispettivi Paesi europei – il criterio cuius regio eius et religio che aveva posto fine alle guerre di religione, “assegnando” sostanzialmente in base al luogo di nascita e di vita i fedeli all’una o all’altra Chiesa maggioritaria in quella regione o in quello Stato – permane fino a quando il fenomeno migratorio interno all’Europa, favorito anche dalla fine dei blocchi ideologici contrapposti, mette in contatto quotidiano numeri significativi di fedeli di altre tradizioni cristiane. Non a caso la prima Assemblea ecumenica europea avrà luogo a Basilea nel 1989, anno della caduta del Muro di Berlino.

Ma più ancora che i mutamenti storici sono la riflessione teologica e l’ampliamento degli orizzonti della spiritualità a mutare la comprensione che le diverse Chiese cristiane hanno dell’ecumenismo e della missione. In questo senso, l’istanza di “aggiornamento” promossa da Papa Giovanni XXIII e dal Concilio Vaticano II, da lui voluto affinché il Vangelo fosse “capito meglio” e la Chiesa cattolica imparasse a usare la “medicina della misericordia”, avvierà un profondo rinnovamento nelle modalità di concepire sia la missione ad gentes – questo il titolo del Decreto conciliare sull’attività missionaria della Chiesa – sia il “ristabilimento dell’unità” dei cristiani – Unitatis redintegratio, come si chiamerà appunto il Decreto sull’ecumenismo.

Ecumenismo e missione si avviano così a non essere più elementi “accessori” della vita della Chiesa, riservati a pochi specialisti: i membri degli Istituti missionari per l’annuncio del Vangelo ai “pagani” e alcuni teologi di punta o qualche singola comunità religiosa per il dialogo con le altre confessioni cristiane. Basterebbe ripercorrere l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di Paolo VI – pubblicata l’8 dicembre 1975 al termine dell’Anno santo e a dieci anni dalla conclusione del Vaticano II – per cogliere il profondo mutamento di paradigma che ha interessato la dimensione missionaria della Chiesa: è significativo di come le intuizioni profetiche di Papa Montini siano state riprese in un’altra esortazione post sinodale, la Evangelii gaudium di Papa Francesco che fin dal titolo e in numerosi passaggi richiama esplicitamente il magistero del suo predecessore.

Quanto all’ecumenismo, diventerà pietra miliare l’enciclica Ut unum sint  di Giovanni Paolo II che, nel 1995 in occasione dei trent’anni da Unitatis redintegratio, così presenta le acquisizioni post conciliari riguardo all’impegno ecumenico della Chiesa cattolica: «L’ecumenismo, il movimento a favore dell’unità dei cristiani, non è soltanto una qualche “appendice”, che s’aggiunge all’attività tradizionale della Chiesa. Al contrario, esso appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione e deve, di conseguenza, pervadere questo insieme ed essere come il frutto di un albero che, sano e rigoglioso, cresce fino a raggiungere il suo pieno sviluppo. Così credeva nell’unità della Chiesa Papa Giovanni XXIII e così egli guardava all’unità di tutti i cristiani» (UUS § 20).

Testimone di questo fecondo intrecciarsi di ecumenismo e missione è, fin dal titolo, il prezioso documento che la pontificia commissione Pro Russia pubblica nel 1992 con l’intento di fornire “Principi generali e norme pratiche per coordinare l’evangelizzazione e l’impegno ecumenico della Chiesa cattolica in Russia e negli altri Paesi della Comunità degli Stati indipendenti”. Sapienti linee guida che, se fossero state applicate con maggiore tempestività e convinzione da parte di tutti, avrebbero evitato molti degli attriti, dei conflitti e delle incomprensioni che hanno contraddistinto i rapporti tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse, in particolare il Patriarcato di Mosca.

Sì, il criterio fondamentale per coniugare ecumenismo e missione resta il radicamento nell’insegnamento stesso di Gesù: la sua preghiera al Padre affinché i suoi discepoli “siano una cosa sola” implica, infatti, esplicitamente il fine cui questa unità tende e il frutto che essa produce: «perché il mondo creda» (Gv 17,21). Così l’esortazione che Gesù rivolge ai suoi discepoli assume la più alta valenza missionaria: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35).

Forse è venuta l’ora, in questa nostra epoca di definitivo tramonto della cristianità, di riscoprire la portata evangelizzatrice della testimonianza – che sempre più spesso giunge fino all’offerta della propria vita, in quell’“ecumenismo del sangue” cui incessantemente fa riferimento Papa Francesco – resa da cristiani di diverse confessioni che si riconoscono fratelli e sorelle e che camminano insieme verso la piena unità visibile. In questo cammino che conosce ancora pause e rallentamenti, ci confortino le parole di Papa Giovanni XXIII riprese da Ut unum sint: «Riferendosi agli altri cristiani, alla grande famiglia cristiana, egli constatava: “È molto più forte quanto ci unisce di quanto ci divide”» (UUS § 20).

In questo spirito potremmo osare spingerci ancora più in là: non solo ciò che ci unisce è più forte di ciò che ci divide, ma Colui che ci unisce, il Cristo, è più forte di colui che ci divide, il Diabolos, il Divisore. Alle nostre Chiese, a noi, a ciascuno di noi, spetta la scelta decisiva per la “corsa della Parola” (cfr. 2 Tess 3,1) in mezzo agli uomini e alle donne del nostro tempo e al cuore delle nostre società: quale Padrone vogliamo servire?