Padre Stanley primo martire Usa

Padre Stanley primo martire Usa

Venne assassinato in Guatemala nel 1981 da gruppi paramilitari legati alla Cia. Padre Rother, “fidei donum” dell’Oklahoma, diventerà beato il prossimo 23 settembre

 

Sapeva di essere nella lista degli squadroni della morte. Per questo motivo nel 1981 era stato convinto a rientrare per un periodo di riposo nella fattoria della sua famiglia in Oklahoma. Ma padre Stanley sapeva anche che «il pastore non può scappare abbandonando il gregge nel momento del pericolo». Così, dopo tre mesi, tornò in Guatemala a morire con i suoi indios tzutuhil.

Si può riassumere così la storia di padre Stanley Rother, il primo martire missionario born in the Usa a diventare beato. Succederà il 23 settembre presso il Cox Convention Center, il complesso dove giocano le stelle del basket Nba ad Oklahoma City, città da cui padre Rother partì come fidei donum per la missione diocesana di Santiago Atitlán, in Guatemala. E sarà un giorno importante non solo per la Chiesa degli Stati Uniti, ma per l’intera America Latina, che vedrà salire all’onore degli altari uno dei tanti preti, suore e laici venuti dal Nord e ritrovatisi in più di un contesto dall’altra parte della barricata rispetto agli interessi e alle politiche dei governi di Washington.

Aveva scelto di stare dalla parte degli ultimi padre Rother. Del resto, nella gente della cittadina maya sulle montagne del Guatemala non aveva fatto fatica a riconoscere le stesse umili origini della sua famiglia di contadini di Okarche, nell’America profonda, dove era nato nel 1935. Ordinato prete diocesano nel 1963, padre Stanley per cinque anni aveva vissuto il suo ministero tra le città di Tulsa e Oklahoma City. Ma quando nel 1968 aveva sentito che il vescovo cercava un nuovo sacerdote per la missione diocesana aperta pochi anni prima in Guatemala si era subito offerto volontario.

Per tredici anni, dunque, a Santiago Atitlán la sua vita era diventata quella degli indios tzutuhil, uno dei ventuno gruppi etnici che formano la comunità maya del Guatemala. In una delle aree più povere del Paese per la sua gente si era dato molto da fare anche con le mani, con il senso pratico di chi è cresciuto in una fattoria. Si era appassionato anche allo studio della loro lingua, traducendo preghiere e brani del Vangelo e promuovendo corsi di alfabetizzazione e lezioni elementari di matematica, che diffondeva dalla missione anche attraverso una piccola emittente radiofonica per raggiungere i villaggi più sperduti.

Tutto questo dalla fine degli anni Settanta andò sempre più a scontrarsi con le operazioni messe in atto dal governo guatemalteco dei generali-presidenti Fernando Romeo Lucas García ed Efraín Ríos Montt, nell’ambito del contenimento del «contagio comunista», promosso in quegli anni dalla Cia in America Latina. Una battaglia in cui non si andava per il sottile nelle distinzioni tra guerriglia e opera di promozione sociale. «Il Nicaragua oggi è il posto peggiore – scriveva padre Rother in una lettera a un amico nel maggio 1980 -, il Salvador è ormai vicino alla violenza aperta, ma anche il Guatemala sta facendo piazza pulita di tutte le personalità liberali o anche solo moderate nel governo, dei leader sindacali e ci sono un mucchio di sequestri di cui non si ha notizia nemmeno sui giornali. Ogni giorno nel Paese spuntano una quindicina di cadaveri e mostrano tutti segni di tortura e colpi d’arma da fuoco».

«C’è stato un altro prete ucciso nel Quiche. Sono tre dall’inizio di maggio – annota in un’altra lettera dello stesso periodo -. Un altro è stato rapito, probabilmente è morto. E che cosa dobbiamo fare in questa situazione? Non possiamo fare altro che continuare il nostro lavoro, andare avanti a testa bassa, predicare il Vangelo dell’amore e della non violenza. Dio si prenderà cura di noi: non succederà niente se non ciò che deve accadere. Fa tutto parte del suo disegno».

Quel disegno si compì all’alba del 28 luglio 1981, appena tre mesi dopo il rientro di padre Rother a Santiago Atitlán. Tre uomini armati entrarono nella missione, costringendo un ragazzo a condurli nel posto dove il missionario americano dormiva. Bussarono alla sua porta e lo sentirono dire: «Uccidetemi qui». Due colpi alla testa misero fine alla sua vita, a soli 46 anni. Fu una morte che scosse profondamente i tzutuhil, in centinaia si riunirono nel piazzale davanti alla chiesa, dove sostarono per ore in una preghiera silenziosa. La salma fu fatta rientrare in Oklahoma, ma il cuore venne significativamente sepolto lì.

Va sottolineato che padre Rother fu solo una delle centinaia di migliaia di vittime del genocidio che tra il 1980 e il 1983, nel momento più duro della guerra civile durata più di 35 anni, colpì le popolazioni maya. Con il pretesto del contrasto ai gruppi armati di ispirazione marxista, infatti, i governi autoritari colpirono con una durissima repressione anche le popolazioni indigene che reclamavano maggiori diritti e il rispetto della propria cultura. E a perpetrare materialmente queste violenze furono gruppi guidati da ufficiali addestrati nella famigerata Scuola delle Americhe, l’accademia militare che a Fort Benning in Georgia insegnava le tecniche per fermare l’espansione dei gruppi rivoluzionari di matrice comunista.

Secondo i dati raccolti dal Remhi – il rapporto sulla Ricostruzione della memoria storica, voluto dal vescovo Juan Gerardi Conedera per documentare le violazioni dei diritti umani negli anni della guerra civile – furono 626 i villaggi maya completamente distrutti in quegli anni, 200 mila le persone uccise o “scomparse”, un milione e mezzo gli indios costretti a diventare esuli nella propria terra. Una ferita mai rimarginata davvero in Guatemala; basti pensare al fatto che, nell’aprile 1996, lo stesso vescovo Juan Gerardi – appena due giorni dopo aver presentato il rapporto che nelle intenzioni della Chiesa avrebbe dovuto costituire la premessa per voltare pagina – venne ucciso davanti alla porta della sua casa.

Per questo motivo la beatificazione di padre Rother è anche una straordinaria occasione per riaccendere i riflettori sul Guatemala. Paese dall’ottobre 2015 governato da Jimmy Morales, ex comico fustigatore dei politici corrotti, salito al potere con il sostegno proprio degli ambienti vicini ai militari. La sua stessa famiglia – adesso – negli ultimi mesi è finita nell’occhio del ciclone per una vicenda di tangenti; mentre le vittime del genocidio continuano comunque ad attendere giustizia.