Hong Kong agonia di una città

Hong Kong agonia di una città

Dopo l’approvazione della famigerata legge sulla sicurezza nazionale, il 1° luglio 2020, la metropoli asiatica si è vista ridurre drasticamente gli spazi di libertà e democrazia. Molte incognite anche per i cattolici

Hong Kong, un anno dopo: la legge sulla sicurezza nazionale, imposta alla città il primo luglio 2020, ha avuto effetti devastanti. Le autorità centrali hanno ottenuto in pieno i risultati che si proponevano: la fine del movimento democratico e delle manifestazioni popolari che lo sostenevano.
Il 24 giugno 2021 è un’altra data di non ritorno, segnata dalla forzata chiusura dell’Apple Daily, l’unico giornale veramente libero e indipendente da proprietà filo-Pechino. Il quotidiano in lingua cinese appoggiava esplicitamente il movimento democratico, ne era di fatto l’espressione pubblica. Ma era popolare anche per essere l’unico giornale che usava gli ideogrammi della lingua cantonese parlata dalla gente e non quelli letterari. Era dunque il quotidiano che intercettava più di qualsiasi altro il genuino sentimento delle persone comuni.
Fondato dall’imprenditore Jimmy Lai, per 26 anni l’Apple Daily è stato la prova che Hong Kong, dopotutto, era una città libera. Ora non è più così. Jimmy Lai è in prigione da un anno con accuse gravissime che potrebbero tradursi nell’ergastolo. Il 17 giugno, cinque dirigenti sono stati arrestati nel corso di un blitz in redazione che ha visto coinvolti 500 poliziotti. I conti bancari sono stati bloccati, impedendo così al giornale di continuare le pubblicazioni. Il quotidiano aveva una tiratura media di 80 mila copie: nel giorno del blitz ne sono state stampate mezzo milione; nell’ultimo giorno, un milione, tutte vendute prima delle 8.30 del mattino. L’ennesima testimonianza che la gente di Hong Kong ama la libertà e la democrazia e ha una sorprendente capacità di resilienza.

Qualche settimana prima, il 4 giugno, per il secondo anno consecutivo, Victoria Park è rimasto malinconicamente vuoto. La veglia per la commemorazione del massacro di Piazza Tiananmen non si farà più: in questi due anni è stato utilizzato il conveniente alibi della pandemia: il prossimo anno, lo storico e tradizionale evento, partecipato per trent’anni da centinaia di migliaia di cittadini pacifici, verrà semplicemente impedito. Siamo convinti che il movimento democratico di Hong Kong, che ha avuto la partecipazione convinta di un numero impressionante di ragazzi e di giovani (protagonisti già dal 2014 della cosiddetta “rivoluzione degli ombrelli”), sia nato e cresciuto proprio nell’emozionante appuntamento annuale di Victoria Park. Per decenni, la sera del 4 giugno, Hong Kong mostrava il suo volto più bello, nobile e generoso. Questa metropoli postmoderna, centro finanziario mondiale, aveva un cuore e un’anima. Bastava partecipare anche una sola volta a quell’appuntamento per sperimentarne l’enorme significato civile e impatto motivazionale.
Similmente è stata abolita anche la grande manifestazione del primo luglio, anniversario del ritorno di Hong Kong alla sovranità cinese nel 1997. Da quell’anno, infatti, centinaia di migliaia di cittadini sfilavano lungo le vie della città per rivendicare l’applicazione della Legge Base (la mini Costituzione di Hong Kong), emanata con la promessa che Hong Kong sarebbe passata col tempo a un sistema pienamente democratico. Il primo luglio 2003, più di un milione di persone avevano marciato per dire di no al primo tentativo di imporre la legge sulla sicurezza nazionale.
Un’altra conseguenza di questa legge, varata in fretta e furia nel fatidico primo luglio 2020, è stata la sospensione delle elezioni parlamentari previste per il settembre scorso; la nuova legge elettorale, infatti, esclude già in partenza tutti i partiti e i candidati “non patriottici”, ovvero l’intera opposizione. Come risaputo, Hong Kong non era governata da un sistema pienamente democratico. Tuttavia, un buon numero di partiti e di esponenti pro democrazia erano stati eletti in Parlamento, e c’era un reale dibattito tra maggioranza e opposizione, anche se un complicato sistema di rappresentanza assicurava che l’Assemblea legislativa fosse sempre filo governativa.

Le precedenti elezioni – le amministrative del novembre 2019 – avevano clamorosamente dimostrato che la gente sosteneva il movimento democratico, nonostante che le manifestazioni di massa iniziate il 9 giugno di quell’anno portassero gravi disagi alla vita economica e sociale della città. D’ora in poi, il dibattito parlamentare non sarà che un passaggio formale nel quale si approva quanto già deciso dal partito, proprio come a Pechino.
A pagare il prezzo altissimo della repressione sono più di diecimila attivisti arrestati nel corso delle manifestazioni e in altri blitz della polizia. È stata decapitata tutta l’opposizione democratica con i suoi leader più significativi: dai giovani Joshua Wong e Agnes Chow (quest’ultima sorprendentemente liberata per buona condotta lo scorso 12 giugno) a quelli più anziani, a partire dal protagonista principale del movimento democratico, l’avvocato cattolico Martin Lee (83 anni) a cui, seppur condannato, è stato risparmiato il carcere, e il sindacalista Lee Cheuk Yan (64 anni). Quest’ultimo era il responsabile della veglia del 4 giugno.
Abbiamo spesso rilevato come la quasi totalità dei leader condannati o incarcerati provenga dal mondo cristiano e in particolare cattolico. Alcuni di loro sono legati da forti legami affettivi e ideali ai missionari del Pime. Sono cristiani che hanno preso sul serio l’insegnamento di Gesù, il bene evangelico della libertà, che è il fondamento della nostra dignità di figli di Dio. Si impegnano per la democrazia perché essa è, come affermano i Papi e il magistero sociale, la forma più coerente con l’imperativo cristiano a edificare la comunità umana.

Un grave episodio che mostra il clima anti-cattolico che, quasi improvvisamente, si è abbattuto sulla città da parte dei sostenitori del regime, è avvenuto proprio lo scorso 4 giugno: Victoria Park era deserto, ma sette chiese erano piene di fedeli che ricordavano “i martiri di Tiananmen”. All’ester­no, persone sconosciute hanno affisso lo stesso manifesto intimidatorio che attaccava in particolare il cardinale Joseph Zen, vescovo emerito di Hong Kong, ritratto come un diavolo.
La comunità cattolica ha vissuto quest’ultimo anno come un grande travaglio, anche perché si è creata una certa divisione di fronte all’evolversi drammatico delle vicende politiche. Tutti i fedeli desiderano libertà e democrazia, ma non tutti hanno condiviso le iniziative politiche del movimento d’opposizione e lo stato di mobilitazione permanente in cui la città è precipitata dal giugno 2019 al luglio 2020. La violenza di alcune frange (e di molti provocatori) ha aumentato il distacco di alcuni cattolici dal movimento democratico. Ma la grande maggioranza, tra cui il vescovo ausiliare Joseph Ha, ne ha supportato le ragioni e le aspirazioni.
La seconda difficoltà riguarda l’arresto, come già accennato, il processo, la condanna e la traduzione in carcere di importanti fedeli cattolici. C’è sincera pena e apprensione per loro, e timore per il destino di altri, tra cui gli esponenti della commissione Giustizia e Pace, sempre in prima fila.
La terza difficoltà è il ritardo nella nomina del sostituto del vescovo ordinario Michel Young, deceduto dopo una lunga malattia il 3 gennaio 2019. La prolungata e travagliata attesa si è conclusa il 17 maggio scorso con la nomina del provinciale gesuita Stephen Chow, 62 anni, un uomo di grande preparazione accademica e attento all’educazione dei giovani. L’ordinazione è prevista per il 4 dicembre. A quella data, la diocesi di Hong Kong sarà così rimasta senza vescovo ordinario per circa tre anni: un tempo troppo lungo, specialmente in un periodo in cui la città ha vissuto una svolta radicale, forse la più drammatica da quando è sorta nel XIX secolo. Ma la nomina è anche una notizia positiva, carica di speranza. Hong Kong ha ora un vescovo che può guardare al futuro e guidare una comunità fortemente bisognosa di unità e di un senso progettuale condiviso.
Ma dove andrà ora questa metropoli di otto milioni di abitanti? Le prospettive non sono buone. La formula “un Paese-due sistemi”, che l’ha governata dal 1997, è già finita. C’è da temere che l’azione di Pechino per annettere al proprio sistema i territori mancanti alla Grande Cina si rivolgerà presto all’isola di Taiwan. Ma ci pare che la stagione di libertà e il sogno di democrazia vissuti a Hong Kong siano come il seme evangelico: mentre sembra morire, ha in sé la misteriosa forza di portare, a suo tempo, buoni frutti.