Sud Sudan: in cammino nella verità

Sud Sudan: in cammino nella verità

Ferito gravemente alle gambe, si è rimesso in piedi e ora cammina a fianco del popolo del Sud Sudan. Intervista al vescovo di Rumbek Christian Carlassare, che sarà presente anche al Centro Pime di Milano il 17 settembre in occasione del 92° Congressino missionario

Vescovo di Rumbek dal 25 marzo 2022, Christian Carlassare, vicentino di 45 anni, è dovuto passare attraverso il trauma di un attentato che lo ha gravemente ferito alle gambe, nella notte del 25 aprile 2021, prima di poter finalmente tornare nella sua diocesi. Ha sperimentato nella sua carne l’odio e la violenza che tante persone del Sud Sudan hanno vissuto per decenni e continuano a vivere. Oggi, dopo un anno faticoso, pieno di sfide, ma anche di nuovi progetti e prospettive, il vescovo vuole soprattutto guardare avanti, cercando di promuovere pace e riconciliazione, per costruire un futuro di speranza per tutti.
«Sono sereno e contento – ci dice da Rumbek -. C’è tanto cammino da fare e non sempre si riesce a rispondere a tutti i bisogni e le necessità. Ma c’è anche tanta bellezza che emerge dalla gente e soprattutto dai giovani. Andiamo avanti con semplicità, umiltà e gioia per garantire una presenza e un servizio che devono contribuire a portare unità e riconciliazione. Il perdono è bello e giusto, ma chiede anche di fare un cammino insieme, il cui primo passo è quello della verità per creare uno spazio di vera conversione».
Com’è oggi la situazione in Sud Sudan?
«È molto complessa. Il governo è piuttosto forte grazie all’accordo di pace e le opposizioni abbastanza divise. Alcuni territori sono più pacifici, in altri ci sono molte tensioni. L’Alto Nilo, ad esempio, porta in sé molte contraddizioni e problemi irrisolti perciò si teme l’esplosione di nuovi conflitti. La situazione economica è molto critica e la povertà si fa sempre più grande. Le devastanti inondazioni hanno ridotto molta popolazione alla miseria per la perdita del bestiame e l’impossibilità di coltivare. Alcuni gruppi si sono spostati con le loro mandrie, creando instabilità specialmente in Equatoria. Il governo ha iniziato a formare la Commissione per la verità, la riconciliazione e la cura del trauma: ci si chiede se la popolazione sia pronta a parlare delle ferite e delle ingiustizie subite senza far riaffiorare sentimenti negativi e controproducenti. Allo stesso tempo, molti si domandano se il Paese è davvero pronto a un esercizio democratico come possono essere le elezioni del 2024».
Oggi il Sud Sudan sta anche accogliendo molte persone in fuga dal Sudan in guerra…
«Più di 100 mila sono già arrivate in Sud Sudan, soprattutto nella regione dell’Alto Nilo. La situazione è molto difficile perché hanno perso tutto e qui non trovano niente. L’Onu si è già attivata e anche la Chiesa cerca di essere presente soprattutto attraverso la Caritas. Alcuni profughi sono stati spostati nella capitale Juba e si sono formati campi di accoglienza improvvisati, in aggiunta a quelli che c’erano già. A Malakal, però, a causa del sovraffollamento, si sono verificati scontri con alcuni morti. Credo che molti cercheranno di uscire dai campi per stabilirsi laddove sperano di ricostruirsi un futuro. Cosa non facile perché hanno perso tutto e devono ricominciare da capo in un Paese segnato dalla crisi economica».
È la storia che si ripete al contrario.
«In qualche modo sì. Il Sudan era visto come un Paese stabile, dove molti sud sudanesi colpiti dalla guerra civile avevano cercato rifugio. Ma ecco che il conflitto scoppia in Sudan e ora i sud sudanesi si trovano in grande pericolo. Non possono che tornare indietro, ma il Paese ha ben poco da offrire, se non la certezza di essere a casa, ma una casa distrutta e da ricostruire, con le risorse che spesso sono state disperse».
Dopo l’attentato, come è stato per lei tornare a Rumbek?
«Ho dovuto farmi carico delle sofferenze e delle ferite di questa diocesi insieme a tanti preti, religiosi e laici che sono impegnati nell’evangelizzazione e nella promozione umana. Abbiamo seguito l’esempio di monsignor Cesare Mazzolari, morto nel 2011, che dagli anni Novanta si è impegnato nel ridare vita a questa diocesi particolarmente colpita durante la guerra di liberazione del Sud Sudan».
Quali le sfide più difficili?
«Le ferite portano spesso divisione invece che solidarietà e comunione. Questa è la sfida più grande, quella dell’unità. Ma anche la più bella perché possiamo davvero essere figli di un Padre misericordioso che ci non abbandona mai. La diocesi di Rumbek è attiva in tanti campi. C’è un’attenzione particolare per i giovani che soffrono per il trauma di un Paese che ha poco da offrire in termini di opportunità. Inoltre, portiamo avanti il ministero della giustizia e della pace, attraverso tanti comitati presenti sul territorio; la radio diocesana impegnata nell’informazione e nella sensibilizzazione della gente; le attività di promozione della donna; ma anche le scuole e la Caritas… Mi trovo ogni giorno travolto da tante domande e bisogni a cui posso – o possiamo – rispondere solo in parte, ma sempre cercando di garantire attenzione e partecipazione alle fatiche della gente».
La visita di Papa Francesco vi ha dato conforto e coraggio?
«La sua innanzitutto è stata una scelta coraggiosa. Ha mostrato chiaramente quanto la sua preoccupazione sia rivolta alle periferie e a tutte le situazioni di marginalità e povertà. Per la gente la sua presenza è stata fonte di speranza e un richiamo all’impegno per una pace che non viene dai palazzi del potere, ma dal basso, dalla volontà della popolazione, anche se ferita, oppressa e spesso ridotta alla miseria. È stata anche un appello a dire di “no” alle divisioni, alla violenza, alla corruzione per creare una società pacificata, solidale e più umana. Per la Chiesa, è stata un monito molto forte a vescovi, preti e religiosi affinché stiano dalla parte delle vittime, curino le loro ferite e lavorino per la pace».
Che cosa è rimasto?
«Un ricordo molto vivo. Spesso continuiamo a rievocare quei giorni e le sue parole. Alcuni mi hanno fatto notare che alla sua partenza c’è stata una pioggerella interpretata come una benedizione. Ma da quel giorno non abbiamo avuto altre piogge: che sia una parabola della situazione del Paese? Ora come Chiesa vorremmo discutere e pianificare iniziative in continuità con la visita di Francesco».
Insieme a un’ottantina di giovani ha fatto un pellegrinaggio da Rumbek a Juba per andare incontro al Papa. Che cosa ha significato?
«Il cammino è spesso un’esperienza di spiritualità e comunione tra chi comincia un percorso insieme. Pensiamo ai grandi pellegrinaggi così come alle marce per i diritti civili. Lo stesso Papa si è presentato in Sud Sudan come pellegrino di pace. Ecco che non abbiamo voluto lasciarlo solo. Ci siamo incamminati, pellegrini in preghiera, giovani di diverse appartenenze etniche, pronti a camminare insieme e a incontrare le comunità lungo la via, testimoniando una pace possibile. Abbiamo visto l’amicizia e la comunione fra i giovani crescere un po’ alla volta. Allo stesso tempo, abbiamo incontrato tante persone nelle varie parrocchie dove ci siamo fermati durante i nove giorni di marcia. Molti ci hanno accompagnato per alcuni tratti. All’arrivo a Juba, una grande folla ci ha accolti e ha marciato con noi per le vie della città. E così ci siamo resi conto di non aver camminato solo per noi stessi, per arrivare a Juba, per incontrare il Papa, ma di averlo fatto per la nazione intera, e molti, in cuor loro, avevano camminato insieme a noi con la preghiera e la comunione di intenti e il desiderio di pace e di riconciliazione per questo Paese».
Questo camminare ha un valore simbolico particolare per lei che era solito percorrere lunghe distanze a piedi per raggiungere le missioni ed è stato gravemente ferito proprio alle gambe?
«La mia prima missione in questo Paese è stata caratterizzata dall’“itineranza” per visitare le tante cappelle di una parrocchia dal territorio vastissimo. Missione come incontro umile con la gente. Missione povera, ma che scopre la ricchezza presente in ogni persona. Il pellegrinaggio ha riproposto la stessa dinamica di evangelizzazione. E vorremmo ripeterlo ogni anno con un gruppo di giovani come modalità per raggiungere coloro che sono ritenuti i più lontani: persone che non vengono considerate e lasciate da parte come irraggiungibili. Penso, ad esempio, a quelli che vivono nelle zone rurali più isolate o ai mandriani semi nomadi che seguono il bestiame. Ma anche le persone stanche, ferite, che non camminano più. Dall’attentato che mi ha ferito le gambe mi sono rialzato, grazie a Dio. Anche questo Paese si può rialzare e avviarsi di nuovo lungo la via del perdono e della pace, lasciando alle spalle il passato di violenze e ingiustizie».
Quanto è importante camminare nella quotidianità con i giovani della sua diocesi? Quali le sfide e le speranze per loro?
«È importante che i giovani possano avere la visione di una meta da raggiungere e impegnarsi innanzitutto nello studio: la scuola oggi non è più un sogno impossibile e rappresenta una promessa di liberazione per tanti ragazzi che non accettano più di vivere senza opportunità, di essere manipolati dai potenti o schiacciati da una cultura oppressiva o, come nel caso di molte ragazze, di essere costrette al matrimonio quando sono troppo giovani per opporsi e progettare un futuro diverso. Un altro livello di impegno è quello nella società, che richiede persone libere, ben formate e pronte a mettere a servizio le loro qualità e capacità. In questo momento si parla tanto di pace, ma non si educa alla pace. Si spingono i giovani alla competizione che crea insoddisfazione perché non sono in grado di raggiungere quello a cui aspirano. Molti sono disturbati dal trauma della povertà e della violenza e non hanno strumenti per liberarsene. Altri soffrono di disturbi comportamentali se non di vere e proprie malattie mentali. Altri ancora si lasciano tentare da alcool e droghe. I suicidi sono in crescita. Camminare insieme significa allora lasciarsi conquistare dalla speranza che la meta esiste ancora e che vale la pena mettercela tutta per arrivarci».


Pime Day: 92° Congressino missionario

Il Congressino Pime – la grande festa che si tiene tradizionalmente il terzo weekend di settembre e da quest’anno prende il nome di Pime Day – torna con tanti eventi. Al centro sempre la consegna del crocifisso a missionari, missionarie e laici in partenza per vari Paesi del mondo. Dunque, appuntamento domenica 17 settembre alle 10.30 per la Messa celebrata dal vescovo Giuseppe Vegezzi, ausiliare di Milano e incaricato per la pastorale missionaria in Lombardia. Con lui concelebrerà il vescovo di Rumbek (Sud Sudan), Christian Carlassare, che porterà la sua testimonianza alle ore 14.
Durante tutta la giornata sono previsti laboratori per bambini e l’apertura straordinaria del Museo Popoli e Culture, con possibilità di visite guidate.
Il pomeriggio sarà soprattutto una bella occasione per conoscere i tanti cammini per i giovani promossi dal Pime nonché l’esperienza per gli studenti di Time Out.
La giornata sarà anticipata da numerosi eventi anche sabato 16 settembre. In particolare, verranno presentati i nuovi corsi dell’Accademia Senza Frontiere (ore 15-17), a cui seguirà il con­cer­to della scuola di musica Cluster. Sempre nel pomeriggio previsti attività ludiche e sportive e laboratori per bambini. In entrambe le giornate sarà possibile visitare la nuova mostra realizzata dalla redazione di Mondo e Missione, dedicata a santa Teresa di Lisieux, patrona delle missioni, a 150 anni dalla nascita.
Tutti gli eventi avranno luogo presso il Centro Pime di Milano, in via Monte Rosa, 81.