Gulbahar, sopravvissuta a un campo di detenzione nello Xinjiang

Gulbahar, sopravvissuta a un campo di detenzione nello Xinjiang

Arriva nelle librerie italiane “Sopravvissuta a un gulag cinese. La prima testimonianza di una donna uigura”, un libro che racconta i tre anni di prigionia e i soprusi subiti da Gulbahar Haitiwaji

 

A casa di Kerim Haitiwaji, un rifugiato politico uiguro, e di sua moglie Gulbahar squilla il telefono. È una chiamata dalla Cina: un sedicente impiegato cerca Gulbahar per informarla che deve ritornare al più presto in Xinjiang. Ci sono dei documenti da firmare relativi alla sua pensione. La donna è ingegnere, come il marito. Per anni, entrambi hanno lavorato nel settore petrolifero, nella città di Karamay. Stanco di vedersi sorpassato nelle opportunità di carriera dai cinesi han e critico verso la politica cinese sempre più repressiva verso gli uiguri, nel 2006 Kerim è riuscito a ottenere lo status di rifugiato in Francia. Gulbahar, con le due figlie Gulmuhar e Gulnigar, l’ha seguito, limitandosi però a chiedere un periodo di congedo dal lavoro. La politica non le interessa e non ha chiesto asilo politico come il marito, ma solo un permesso di soggiorno.

Inizia così la vicenda raccontata nel memoir “Sopravvissuta a un gulag cinese”, scritto da Gulbahar Haitiwaji insieme alla giornalista Rozenn Morgat, che esce ora anche in italiano (Add Editore, 18 euro). Un’atroce e agghiacciante testimonianza di quanto la protagonista ha vissuto sulla sua pelle per tre anni, dopo aver ingenuamente accettato di prendere un volo per lo Xinjiang per risolvere un problema burocratico e, con l’occasione, per rivedere la madre e il resto della famiglia. Arrivata a Karamay, scatta la trappola: la donna viene arrestata e incomincia così il suo calvario, fra
prigioni e campi di rieducazione.

Il mondo ha ufficialmente scoperto l’esistenza di questi centri – definiti “scuole” dai cinesi e destinati alla rieducazione politica degli uiguri – nel 2018, quando sono stati condannati dalle Nazioni Unite. In precedenza, ricercatori e attivisti per i diritti umani avevano ipotizzato che circa un milione di persone vi si trovassero rinchiuse. La situazione si era inasprita infatti a partire dal 2016, quando Chen Quanguo, già segretario del Partito Comunista Cinese in Tibet, è stato trasferito nello Xinjiang con lo stesso incarico.

La colpa degli uiguri è quella di essere un’etnia turcofona di religione musulmana fedele alla propria cultura, lingua e valori. Lo spettro del radicalismo islamico, del terrorismo e di un movimento indipendentista aveva spinto già da qualche anno Pechino a usare le maniere forti. È vero che nel 2017 l’ambasciatore siriano in Cina denunciava la presenza di oltre 5000 combattenti uiguri in seno all’Isis, come riportato da Reuters. Ma è altrettanto vero che la popolazione uigura dello Xinjiang, soprattutto a nord – lo racconta la stessa Haitiwaji – era abituata a convivere con i cinesi han, e ne aveva abbracciato lo stile di vita. Niente veli per le donne, né barbe lunghe per gli uomini, neppure quando la legge cinese ancora lo consentiva. Chi era religioso, professava un islam moderato. Eppure, poco alla volta tutti gli uiguri diventano per le autorità dei potenziali terroristi, da sorvegliare ovunque, anche nelle loro case, e magari anche da assimilare. Sono infatti riportati casi di ragazze uigure spinte a sposarsi con cinesi han.

La storia di Gulbahar è paradossale: la protagonista non ha nulla a che fare con la politica, non è particolarmente religiosa e finché ha vissuto nel suo Paese era perfettamente integrata nella società cinese. Dopo l’arresto, la donna ha dovuto aspettare un anno in galera prima di subire un processo farsa, senza un giudice né un avvocato, in cui è stata condannata a sette anni di detenzione. Non sa perché è finita in questo inferno. Forse perché vive all’estero, forse perché una delle sue figlie è stata fotografata a Parigi in una manifestazioni di uiguri. Ma dietro alle sbarre troverà tante donne uigure in situazioni simili alla sua, alle quali vengono imputati reati improbabili. In Xinjiang basta pregare per essere colpevoli.

La voce dell’autrice ci conduce all’interno delle prigioni e dei centri di rieducazione in cui è stata costretta a vivere, ammassata con altre detenute, con i capelli rapati a zero e con la stessa divisa carceraria lurida, indossata per mesi. Undici ore quotidiane di insegnamento ideologico, un lavaggio del cervello perpetrato costringendo le persone a ripetere in continuazione le stesse frasi. Ogni settimana, un esame orale e scritto. Gradualmente, le vittime perdono la memoria, i ricordi del passato svaniscono. E poi le vaccinazioni, che Gulbahar e le sue compagne sospettano siano una sterilizzazione non dichiarata, perché le donne più giovani dopo averle subite non hanno più il ciclo. «Ci hanno chiesto di rinnegare quello che eravamo», scrive nel suo libro. «Di sputare sulle nostre tradizioni. Di criticare la nostra lingua. Di insultare il nostro popolo. Le donne che escono dai campi, come me, non sanno più chi sono. Siamo ombre, anime morte».
A differenza di altri uiguri, Gulbahar Haitiwaji ha avuto la possibilità di riassaporare la libertà. Il 21 agosto 2019 atterra a Parigi dove l’attende la sua famiglia. È grazie soprattutto all’impegno di sua figlia Gulhumar, la quale ha pubblicizzato con ogni mezzo il caso della madre e ha coinvolto le massime autorità francesi, che le porte della prigione per lei si sono aperte. Ma il ricordo dei campi, come scrive, continueranno a emergere nella sua memoria spezzata. Perché il suo corpo e la sua anima ne sono intrisi. Dimenticare è impossibile.