Messico, una voce per gli indigeni

Messico, una voce per gli indigeni

Ad Ayutla de Los Libres, nello Stato del Guerrero, una radio comunitaria porterà il Vangelo sui monti, tra i villaggi di Tlapanecos e Mixtecos. «E permetterà loro di fare conoscere le proprie culture», racconta padre Paulo Amorim, missionario brasiliano del Pime

Dato che non sai il portoghese, gli scrivi su WhatsApp in spagnolo, tenendo presente che è un sacerdote brasiliano da sei anni in Messico. Ma padre Paulo Amorim risponde direttamente in italiano: d’altra parte adattarsi alla lingua dell’interlocutore non è un problema per lui, come spiega con il suo sorriso contagioso durante la videochiamata, prima di andare a celebrare la prima Messa della giornata. «Ho vissuto in Brasile, Italia, Filippine, Guinea-Bissau e Messico: mi dicono che sono il missionario dai quattro continenti», esclama. Da due anni, padre Paulo è il parroco della chiesa di Santiago Apóstol nella città di Ayutla de los Libres, nello Stato messicano del Guerrero. Si divide tra l’evangelizzazione in città e sulle montagne. I monti sono la casa delle comunità indigene tlapaneca e mixteca, che vivono di agricoltura in un contesto con scarse opportunità sociali, educative e sanitarie: visitarle non è sempre facile, soprattutto durante la stagione delle piogge, quando i veicoli con cui i missionari del Pime distribuiscono viveri, medicine e vestiti rischiano di rimanere bloccati nel fango. Se raggiungerli di persona è complicato, a breve ci penserà l’etere con “Rádio Ayutla”: l’emittente comunitaria verrà installata in parrocchia ed è pensata per portare la parola di Dio a queste popolazioni, ma anche per offrire loro una possibilità di informarsi, formarsi e far sentire la propria voce nella società.

Padre Paulo, quando è nata l’idea di creare Rádio Ayutla?

«Tutto è partito l’anno scorso: noi missionari del Pime stavamo pensando a un modo per far percepire ancora di più la nostra presenza tra le comunità indigene e per approfondire l’opera di evangelizzazione. Con i miei confratelli che operano in Messico, padre Ferdinand Komenan, padre Domingos Tchuda e padre Mauro Pazzi, ci siamo detti: “Perché non diamo vita a una radio che raggiunga le famiglie, circa un migliaio, sparse sui monti?”. L’obiettivo è proprio unire la gente della montagna e quella dell’area urbana trasmettendo programmi culturali, religiosi, di formazione e informazione in lingua spagnola, tlapaneca e mixteca».

A che punto è il progetto?

«Ci siamo quasi: abbiamo fissato un budget per le apparecchiature e individuato le persone che si occuperanno dei programmi. Non appena arriveranno i fondi, che saranno raccolti attraverso una campagna di solidarietà del Pime in Brasile, da dove provengo, saremo pronti a partire. Lo studio sarà nei locali della parrocchia di Santiago Apóstol: metteremo un trasmettitore a La Concordia, la parrocchia che dista una quarantina di chilometri, in modo che le due comunità del Pime possano far ascoltare la programmazione. In futuro, prevediamo di creare anche un piccolo studio a La Concordia per dare voce alle sue attività. Nel frattempo, io collaboro con Mundo e Missão, la rivista brasiliana del Pime: mi sono preso l’impegno di scrivere un articolo al mese in cui racconto la realtà tlapaneca e mixteca».

Di che popoli si tratta?

«I tlapanecos vivono sul versante est della montagna, mentre i mixtecos risiedono a ovest. Parlano due lingue completamente diverse e hanno stili di vita, abitudini, costumi e religiosità popolari distinti. I tlapanecos sono più aperti e riescono a comunicare in spagnolo con la gente della città, mentre i mixtecos fanno più fatica, forse perché vivono più distanti da Ayutla de los Libres. Le due realtà non si integrano: quando arrivano nell’area urbana, vendono la loro merce e provano a parlare in spagnolo tra loro, ma ognuno rimane nel proprio mondo e mantiene il proprio modo di fare».

Che rapporto hanno con voi missionari?

«Ci siamo accorti che nella realtà tlapaneca e mixteca c’è ancora del lavoro da fare per quanto riguarda l’evangelizzazione e la catechesi: questo perché, quando i padri diocesani erano qui, si recavano nei loro villaggi solo una volta all’anno. Quando siamo arrivati noi missionari del Pime abbiamo iniziato a visitare le comunità, che sono costituite da cattolici battezzati, ogni mese, ma ci siamo resi conto che c’è bisogno di una maggiore presenza da parte nostra. Siamo convinti che la stazione radiofonica ci darà una grande mano: sarà possibile inviare comunicazioni e avvisi, ma anche fare la lettura giornaliera del Vangelo e trasmettere l’audio delle Messe».

Anche perché, in certi periodi dell’anno, diventa più complicato arrivare di persona.

«La pioggia comincia tra aprile e maggio e prosegue fino a ottobre/novembre. Quando le precipitazioni sono molto abbondanti, per noi andare sui monti diventa una sfida: i nostri mezzi rimangono impantanati nel fango e non ci sono carri attrezzi. Le strade sono piene di curve e, talvolta, le frane impediscono di raggiungere i villaggi, per cui bisogna andare a piedi e camminare a lungo. D’altra parte, la pioggia ha un’importanza fondamentale per la vita di questa gente. I mixtechi sono devoti a san Marco e, il 25 aprile, lo festeggiano con un rituale particolare: si riuniscono sui monti e i più anziani della comunità posano offerte su una pietra, chiedendo al santo che piova per il tempo della semina del mais e degli altri prodotti. Una tradizione che si ricollega alla dominazione spagnola».

Com’è la quotidianità nella parrocchia di Santiago Apóstol?

«La parrocchia è molto grande e comprende una sessantina di comunità, tra cui una trentina tlapaneche e cinque/sei mixteche. Abbiamo piccole cappelle in montagna e chiesette in città in cui celebrare la Messa. Ogni giorno la routine è piuttosto frenetica: mi capita di avere in programma anche sei Messe dalla mattina alla sera. La domenica, in parrocchia, arriviamo a celebrarne anche otto o dieci. Nel corso delle mie giornate visito gli infermi, confesso i fedeli, giro per benedire le case e svolgo tante attività. Il compito di noi missionari del Pime è prestare attenzione sia alla gente di città sia a quella di montagna, con i ritmi e le condizioni di vita che le contraddistinguono. Tante volte, chi vive sui monti, in condizioni economiche più svantaggiate, quando scende a valle si ferma a dormire nell’atrio della chiesa, poiché non riesce a tornare a casa lo stesso giorno».

Lei è stato in missione in quattro continenti: Europa, Asia, Africa e America.

«Sono sacerdote da più di vent’anni. Quando sono stato ordinato, il superiore mi ha inviato a fare animazione missionaria nel Sud Italia, a Napoli e Gaeta. Per quasi quattro anni ho lavorato con i giovani insieme a padre Luca Bolelli. Poi sono stato mandato nell’isola di Mindanao, nel Sud delle Filippine, dove si vivono le tensioni legate agli scontri tra governo e gruppi separatisti musulmani. Dopo sei anni mi è stato chiesto di andare in Africa, in Guinea-Bissau, e dopo un altro paio di anni sono tornato nella mia terra, il Brasile. Ora, come si dice, da queste parti, aquí estamos, “siamo qui” in Messico».

È stato difficile adattarsi a tutte le realtà?

«Ho vissuto esperienze che non si possono paragonare. Qui nel Guerrero, all’inizio, parlavo un misto tra portoghese, italiano e spagnolo e quasi non sapevo più che cosa stavo dicendo! Poi, con il passare del tempo, ho imparato bene la lingua e in generale non ho avuto difficoltà a integrarmi. Quando sono stato in Asia, invece, è stato un po’ più difficile, anche se devo dire che nelle Filippine e in Messico hanno un modo simile di intendere la religiosità popolare, per via della dominazione spagnola: a Mindanao si parla il chabacano, una lingua creola in cui lo spagnolo si mescola alle lingue indigene. Si può dire che mixare le culture sia la costante della mia vita».