Covid-19 emergenza mondo

Covid-19 emergenza mondo

Concentrati sulla grave situazione dell’Occidente, abbiamo perso di vista il resto del Pianeta. Viaggio in alcuni contesti critici dove operano i missionari del Pime. A cominciare dall’Asia

«Qui la scelta è tra morire di fame oggi o morire forse di Coronavirus domani». È il drammatico racconto che ci arriva da padre Simone Caelli, missionario del Pime a Manila, l’immensa capitale delle Filippine, che con i suoi 12 milioni di abitanti è stata messa in lockdown il 15 marzo. Non è l’unica testimonianza del genere che ci è giunta in queste settimane segnate dall’emergenza Coronavirus. Anche perché, mentre l’attenzione dei media si chiudeva quasi esclusivamente sul nostro Paese, il terribile virus si apriva al resto del mondo, andando ad aggravare situazioni già strutturalmente molto difficili se non addirittura drammatiche. Situazioni dove spesso operano anche i missionari del Pime che, qui in Italia come altrove, si sono sentiti interpellati a stare con tutti i mezzi – dai social media alla solidarietà concreta – al fianco dei più bisognosi. Per questo hanno promosso la campagna “Emergenza Coronavirus nel mondo” per poter arrivare, grazie all’aiuto di amici e benefattori, sino nelle periferie più remote e abbandonate del pianeta . Lì i fondi raccolti andranno a sostenere missionari come padre Simone che si è attivato in tutti i modi possibili per cercare di aiutare i più poveri.« Per milioni di persone che vivono alla giornata – racconta dalla parrocchia di Paranaque, nell’estrema periferia della capitale filippina, dove lavora senza sosta per preparare borse di viveri da distribuire – la situazione si è aggravata sin dai primi giorni della quarantena. Fanno la fame nel vero senso della parola. E l’emergenza sanitaria passa in secondo piano».

Quanto il Coronavirus stia flagellando anche le Filippine è difficile dirlo con dati certi. All’inizio dell’epidemia, nel Paese, c’erano solo duemila tamponi disponibili, messi prioritariamente a disposizione di politici e potenti, che hanno avuto la precedenza persino sul personale medico-sanitario. Che, infatti, anche lì, ha iniziato a morire. Già a fine marzo, racconta padre Caelli, «i maggiori ospedali di Manila non accettavano più pazienti Covid-19 per mancanza di posti. E ogni giorno c’era gente che veniva a chiederci aiuto per il cibo. Ed eravamo solo agli inizi!».

Intanto, il presidente Rodrigo Duterte, con i suoi soliti modi da sceriffo, ha ordinato di sparare su chiunque violasse la quarantena: «Il mio ordine alla polizia e all’esercito – ha dichiarato in un messaggio televisivo – è di sparare se ci sono disordini o proteste. Piuttosto che creare problemi, vi manderò nella tomba». Ma a prescindere dalle minacce di Duterte, le fasce più povere della popolazione che vive sull’isola di Luzon, in cui si trova la capitale Manila (48 milioni di abitanti in tutto), rischiano di non sopravvivere al lockdown.

In parrocchia, padre Simone e padre Sundeep Pulidindi, missionario indiano del Pime, che lo affianca dal 2018, si sono subito rimboccati le maniche. «Operiamo in una situazione di emergenza – racconta padre Caelli – e non senza fatiche e frustrazioni per non poter raggiungere tutti coloro che avrebbero bisogno. Sin dal primo giorno della quarantena, tuttavia, ci siamo organizzati per comprare generi alimentari e alcune donne del programma Little Angel Club (Lac), il progetto di sostegno a distanza portato avanti con la Fondazione Pime di Milano, preparano le borse da distribuire con riso e noodles, scatolette di sardine o di carne, caffè solubile e, in caso di bambini piccoli, latte in polvere».

Non è mancata neppure la solidarietà locale: chi ha potuto ha condiviso qualcosa, chi aveva la possibilità di dare una mano lo ha fatto. Il tutto con la complicazione di mantenere il distanziamento sociale: una delle norme più difficili da rispettare innanzitutto nella vita quotidiana di famiglie spesso ammassate in locali angusti.

Il problema si è posto anche durante la distribuzione di viveri: «Nonostante mandassimo in giro inviti mirati – racconta il missionario – la notizia si è diffusa a macchia d’olio e un giorno ci siamo ritrovati con 500 persone accalcate al cancello della parrocchia. Non ci sono stati incidenti, ma abbiamo dovuto chiamare le autorità locali. Nel pomeriggio è andata meglio e siamo riusciti a distribuire 182 pacchi. Un altro giorno abbiamo esaurito i viveri e c’era ancora gente in attesa… È una situazione che ci ha messo molto sotto pressione. Spesso mi sono sentito frustrato per non poter fare di più. Ma mi sono anche commosso nel vedere la felicità genuina di chi riceve un semplice aiuto e la grande generosità di tanti parrocchiani, che silenziosamente hanno donato denaro o cibo alla povera gente».

Da metà aprile, padre Caelli ha dovuto modificare le modalità di distribuzione. E in accordo con le autorità locali, ha optato per far venire alcune persone dalle diverse aree della parrocchia – leader di comunità o laici impegnati – e dare loro i pacchi da portare direttamente alle famiglie più bisognose. «Questo ci ha alleggerito molto anche psicologicamente e ci ha permesso di dedicarci in altro modo alle attività pastorali, che sono state tutte sospese il 15 marzo». Grazie a tre ragazzi, che fanno parte del progetto Lac e che hanno condiviso la quarantena con i padri, è stato creato un media-team che ha trasmesso tutte le celebrazioni in streaming sul profilo Facebook della parrocchia, garantendo una vicinanza, anche se solo virtuale, con i fedeli. «Domani è un altro giorno!», dice padre Simone, ma senza alcun senso di rassegnazione e con la lucidità di chi è pronto ad affrontare le sfide che, anche a Manila, si porranno nella fase post Coronavirus.

Grandissima è la preoccupazione in un altro Paese dell’Asia, continente dove la pandemia sta mettendo a dura prova i fragili equilibri economici e sociali in molte zone della regione. Le immagini di masse di lavoratori indiani rimasti disoccupati a causa del lockdown dichiarato a fine marzo dal premier Modi e riversatisi nelle strade per tornare, a piedi, nei propri villaggi di origine per sopravvivere, sono arrivate fino a noi. E ci hanno aiutato ad avere un’idea delle dimensioni drammatiche dell’emergenza in India.

«Attualmente le grandi città come Chennai, Mumbai, New Delhi e Jaipur sono nelle condizioni più gravi: se la chiusura delle attività dovesse continuare a lungo, la gente morirebbe più per la fame che per il virus», raccontano le missionarie dell’Immacolata che, insieme alla ong legata al Pime New Humanity, seguono il progetto Navchetan per bambini con disabilità a Jaipur, la “perla” del Rajasthan. «Nonostante la nostra sia una delle città più colpite dall’infezione, nessuno si è impegnato né a livello politico né sociale per rispondere a questa grave situazione, specialmente per i poveri degli slum, che hanno quasi tutti solo lavori a giornata e che quindi in questo momento non hanno nemmeno da mangiare», denunciano le suore.

Di fronte all’emergenza, lo staff locale di New Humanity si è immediatamente mobilitato, chiedendo alla polizia un permesso speciale per raggiungere lo slum dove si trova il Centro Navchetan e organizzare lì una distribuzione di cibo e materiale igienico alle famiglie del progetto. «Le persone verranno al Centro una volta alla settimana, a orari concordati per evitare assembramenti, e riceveranno il loro pacco con tutto il necessario per i sette giorni seguenti». Un intervento possibile anche grazie all’aiuto spontaneo di donatori privati locali e dell’intera comunità, che ha permesso di dare una prima risposta tempestiva alla crisi, in attesa dei fondi stanziati dalla Ong in Italia. «Una bella testimonianza di come la solidarietà possa innescarsi in modi e momenti inaspettati».

La ong si è trovata in prima linea anche in Myanmar, dove uno dei problemi più gravi da affrontare è il rientro forzato di decine di migliaia di emigrati dalla Cina e dalla Thailandia, rimasti senza lavoro a causa dell’epidemia. A preoccupare è anche la modalità del loro ritorno: molte frontiere sono senza controllo e non è stato possibile effettuare alcuno screening sull’eventuale positività al virus delle persone in arrivo.

In questo contesto il governo di Yangon ha lanciato un appello per reperire spazi in cui mettere in quarantena i possibili contagiati. Una richiesta a cui New Humanity non è rimasta insensibile. «Il momento che stiamo vivendo ci chiede molto – spiega Enrico Fidanza – non solo come organizzazione ma prima di tutto come persone. È troppo presto per fare considerazioni, ma crediamo che il virus non stia solo colpendo i nostri corpi, ma stia influenzandoci a molti livelli, dal modo di pensare alla stessa nostra fede. Se per salvaguardare i corpi è necessario mantenere le distanze fisiche, lo spirito e la mente chiedono prossimità. Per questa ragione abbiamo deciso di aprire l’House of dreams di Taunggy a questo nuovo bisogno che la popolazione sta vivendo: corpi che si ammalano, anime che soffrono la solitudine».

L’House of dreams, la Casa dei sogni, è un luogo dove normalmente vengono accolti giovani con problemi di dipendenza, per offrire loro un percorso di riabilitazione in vista di un reinserimento lavorativo e sociale. Attualmente i suoi locali a Taunggy erano vuoti, perché in questo periodo dell’anno i ragazzi che hanno completato il percorso tornano ai propri villaggi. Alla fine di aprile sarebbe dovuta partire l’accoglienza di un nuovo gruppo, ma la pandemia rende il programma impraticabile. Di qui la scelta di aprire le porte a chi necessita di osservare una quarantena. Intanto, New Humanity sta continuando a offrire assistenza ai propri Centri per disabili: non essendo al momento possibile portare avanti le terapie, il sostegno avviene attraverso la fornitura di cibo e materiale per l’igiene: «Siamo molto preoccupati per i villaggi rurali, dove le persone non possono più andare a lavorare o recarsi in città per vendere i loro prodotti – spiega Livio Maggi -. Il nostro staff nello Stato Shan si è dunque organizzato per portare rifornimenti all’ingresso dei villaggi, per non lasciare sole le famiglie dei disabili. A Yangon, invece, sosteniamo il Centro giovanile Nghet Aw San attraverso visite più frequenti del medico e la fornitura di materiale igienico e sanitario, e distribuiamo pacchi alimentari ai poveri del quartiere». Nonostante le oggettive difficoltà, l’imperativo resta non lasciare indietro nessuno.