Aids in Africa: quando la discriminazione aiuta il contagio

Aids in Africa: quando la discriminazione aiuta il contagio

UNAIDS ha presentato un report sulla diffusione dell’AIDS e le cure per combatterlo. Alcuni dati sono incoraggianti, ma la situazione in Africa resta difficile e a mietere vittime è anche la discriminazione

 

Il 21 novembre a Windhoek, in Namibia, UNAIDS ha presentato un report sulla diffusione del virus HIV e delle cure che permettono di sopravvivere ai suoi effetti. I dati mostrano come la lotta all’AIDS stia gradualmente portando buoni frutti, ma restano preoccupanti ed evidenziano come alcune fasce della popolazione siano ancora gravemente esposte al contagio.

Secondo i dati UNAIDS nel mondo ci sono circa 36 milioni di persone affette da AIDS e numero di nuovi contagiati nel 2016 si aggira intorno ai 2.1 milioni di persone. 1.1 milioni di persone sono morte a causa del virus (di cui 110 000 bambini), mentre sono 18 milioni le persone che vivono sotto il trattamento dei farmaci antiretrovirali. Sono numeri da capogiro, ma risultano meno difficili da mandar giù se confrontati con i dati storici.

Dal 2004 ad oggi il numero delle vittime dell’AIDS si è quasi dimezzato e quasi (o solo?) il 50% dei malati ha potuto contare su una terapia, rispetto al 10% di dieci anni fa. Inoltre, quasi sei milioni di persone che hanno contratto il virus e hanno seguito un trattamento antiretrovirale hanno superato i cinquant’anni di età, dimostrando così l’efficacia delle cure. Grazie alla loro diffusione, il numero di persone che è in grado di vivere nonostante la malattia è passato dai 7 milioni e mezzo del 2010 ai 18.2 milioni di oggi. Il rapporto della UNAIDS parla di una “corsia di accelerazione” su cui molti Paesi si stanno ponendo nella lotta al virus HIV.

Ma alcune fasce della popolazione si trovano ancora in una situazione estremamente delicata. Quelle più in pericolo sono le donne sotto ai 25 anni che vivono nell’Africa subsahariana, le più esposte a un triplo rischio: un’alta probabilità di contrarre il virus, una bassa possibilità di accedere ai test di controllo e scarso accesso ai trattamenti farmacologici. Le tre cose sono legate insieme dal cancro della discriminazione e della scarsa educazione alla prevenzione, che può giocare un ruolo chiave sia nella riduzione delle nuove infezioni, sia nella trasmissione della malattia da madre a figlio. È in questa direzione che vanno gli sforzi di Rachel Yameogo, madre sieropositiva del Burkina Faso.

La storia e il lavoro di Rachel sono stati raccontati in un breve documentario di due giornalisti di Al Jazeera. Rachel, che ha scoperto di avere l’HIV nel 1992, lavora a Ouagadougou dove porta avanti attività di educazione per donne incinte malate di AIDS. Il suo obiettivo principale è aiutarle a seguire il protocollo di prevenzione, che può portarle a dare alla luce un figlio sano nonostante la loro malattia. Lei stessa è madre di due bambini, entrambi nati senza il letale retrovirus.

Il suo secondo obiettivo, non meno importante, è quello di educare queste donne a una nuova consapevolezza della loro situazione. In Burkina Faso le malate di AIDS sono spesso le prime vittime della discriminazione e vengono allontanate dalle loro famiglie; questa situazione le porta, in gran parte dei casi, a decidere di non sottoporsi ai test contro l’HIV, per paura di essere trovate positive e di essere ripudiate dai mariti. Si dà così il via a una catena che le porta, non curandosi, sia a rischiare la vita sia a trasmettere la malattia al neonato, facendo crescere la popolazione infetta. La discriminazione diventa quindi, così come i rapporti sessuali non protetti, un mezzo per diffondere l’epidemia.

Rachel si è resa conto che questo fenomeno si verifica soprattutto nelle zone rurali, dove il livello di educazione è molto più basso che in città. Ha così intrapreso una vera e propria campagna di informazione nelle aree intorno a Ouagadougou, per far crescere la consapevolezza dei rischi dell’AIDS e convincere le donne a sottoporsi ai test senza paura. La sua lotta non è solo contro il virus, ma anche e soprattutto contro la mentalità che vede le donne malate come soggetti inferiori da tenere lontani. Rachel è impegnata in prima persona nel dare l’esempio: non nasconde con vergogna la sua malattia, ma mostra fieramente il suo ruolo di donna e di madre. La sua rivoluzione vuole dare alle malate una nuova dignità per aiutarle a conservare il loro posto nella società: quello di madri coraggiose che hanno dato alla luce la nuova generazione sana di africani.