Ciad, la missione dell’essenziale

Ciad, la missione dell’essenziale

La testimonianza di un ragazzo che grazie al cammino di “Giovani e missione” ha trascorso un mese a Koupor in Ciad, insieme a padre Marco Frattini. Un’esperienza fatta di piccole cose e tanti incontri. Che lo hanno segnato profondamente

«Sussè!», nella lingua locale significa grazie, auguri, pace, felicitazioni. E anch’io vorrei salutarvi così: «Sussé!»

La missione del Pime in Ciad l’ho scoperta nella semplicità e nell’essenzialità, niente super missionari o super giornate, la chiave è nei piccoli gesti, quelli che diamo per scontato come un saluto o un sorriso.

Il Ciad è grande tre volte l’Italia, per gran parte deserto del Sahara; 17 milioni di abitanti (1 milione di cristiani), penultimo posto nell’Indice di sviluppo delle Nazioni Unite, al governo il figlio del presidente ucciso nel 2021 dai ribelli provenienti dalla Libia. Il Ciad è un Paese molto arretrato, specialmente fuori dalle città. Abbiamo viaggiati dalla capitale N’Djamena lungo il fiume Logone verso sud-ovest, al confine con il Camerun per arrivare a Tikem e Koupor, le due missioni del Pime.

Sono partito con Martino, mio compagno di missione, un giovane del 2001. Abbiamo condiviso le giornate per un mese intero; stare con un’altra persona diventa una vera missione, ti porta ad andare incontro all’altro, e non è immediato, ci vuole pazienza. In Ciad, come in tutti i Paesi arabo-musulmani, c’è un detto in arabo che dice: «La pazienza è bella!».

All’arrivo ci sistemano in una capanna con il tetto in paglia intrecciata, due letti, un armadio, zanzariere. Ci accolgono i padri missionari e una sessantina di bambini dai 5 ai 17 anni: si avvicinano, ci toccano, ci sorridono, ridono per i miei capelli lunghi e ricci e per i baffi di Martino! Ci danno dei fiori e ci stringono la mano. Un’accoglienza calorosa. Noi ci sforziamo di realizzare che siamo in Africa, ma con scarsi risultati, finché non decidiamo di lasciarci andare definitivamente scegliendo di non usare il telefono, di non comprare una scheda con la connessione (che poi l’antenna del villaggio neppure prendeva sempre) e di stare in ascolto della realtà, di noi, degli altri, di Dio. All’inizio faticoso. I giorni passano e subito entriamo nei ritmi della giornata.

Una sera padre Marco Frattini, missionario del Pime, originario di Germignaga, ci avvisa che il giorno dopo saremmo andati a trovare un ragazzo in prigione. Sveglia come ogni mattina alle 5.30/5.45, con il canto del gallo, preghiera o Messa, colazione… E via, si parte! Motorino in tre, senza casco, su strade non asfaltate ma di terra sabbiosa che se piove diventa fango puro, argilloso, tra campi di miglio infiniti, piantagioni di cotone e arachidi, tra alberi con radici sopra e sotto il terreno, giganti e alcune di esse curative. Tronchi larghi, baobab, piante di mango e fiori rosa e gialli con lo stelo alto e grosso, resistente all’acqua e a temperature elevate. Si viaggia bene, qualche slittamento con la ruota posteriore, schizzi di fango e poi… la caduta.! Mi ritrovo a terra, vedo la ruota che continua a girare a vuoto. «Siamo caduti!», esclamo. E padre Marco risponde: «Sì, è la prima e non sarà nemmeno l’ultima volta». Nessuno si fa male, ci rialziamo. Martino si scotta la caviglia con la marmitta, ma non ci dice niente: un bel souvenir dall’Africa. Ripartiamo con attenzione, nei pezzi pieni di acqua scendiamo a piedi, ciabatte in mani e piedi nel fango. Arriviamo vicini al villaggio, scendiamo dalla moto e vediamo il lago da attraversare con una piccola imbarcazione, una piroga. Siamo in sei o sette sulla piroga più la moto. Mi rivolgo con Martino e gli dico che così pesiamo troppo, non ce la si può fare, ci sbilanceremo sicuro e imbarcheremo acqua. Padre Marco ci guarda e ci chiede se siamo capaci di nuotare. Annuiamo. Invece non succede nulla, arriviamo dall’altra parte senza sforzi. Ci godiamo il rumore dei ciuffi d’erba tra il legno della piroga, il vento e il rumore dell’acqua.

Ripartiamo e raggiungiamo nel centro città la prigione che consiste in un edificio circondato da mura, dentro non ci sono stanze, non c’è niente. Le persone dormono all’aperto ed escono solo se hanno visite. Militari con il mitra stanno seduti a parlare. Ci avviciniamo a uno di loro che sta sotto un albero con un tavolino, gli lasciamo il telefono e chiediamo di Justin, un giovane di 25 anni, padre di famiglia, che si trova lì da 6 mesi e deve farne altrettanti per riavere la libertà, incarcerato ingiustamente, in base a un’accusa infondata. Una storia assurda: «Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,10). L’avevamo letto l’ultima domenica a Messa e padre Marco aveva citato proprio l’esempio di Justin. Ci fanno accomodare fuori dalle mura, ci portano un tronco levigato e pulito per farci sedere. Attendiamo. Eccolo che arriva, saluta prima padre Marco e poi noi due. Ha gli occhi lucidi e accesi sul viso stanco e una pelle raggrinzita. Marco ci presenta, lui ci guarda, annuisce, ci dà il benvenuto nel Ciad, sorride e ci ringrazia. Dopo due parole, Justin si accosta alla confessione, noi ci spostiamo, poi insieme recitiamo (ascoltiamo) in lingua locale e francese qualche passaggio della Messa. Ascoltiamo il Vangelo, preghiamo insieme, ci scambiamo la pace, e poi Justin riceve l’Eucarestia. Stiamo in silenzio, riceviamo la benedizione. Stiamo ancora un po’ lì con lui. Gli abbiamo portato del cibo, lui torna dentro ed esce con tre doni, anelli e borse che fanno i ragazzi in carcere con materiali che trovano lì, uno ciascuno. Bellissimi! Ci salutiamo, ci stringiamo la mano, ci ringrazia ancora, ci dice di salutare la famiglia e la nostra comunità.

Approfittiamo del posto per comprare qualcosa al mercato, come il pane, qualche bibita o altro, e ripartiamo per la missione. Moto, piroga, moto, casa. Pranziamo e ci riposiamo un po’. Pomeriggio c’è l’ecole de vacances, una sorta di scuola per i ragazzi dei villaggi vicini (qualcuno si faceva ogni giorno una o due ore di cammino per partecipare). Preghiera insieme e poi tornei di calcio per i ragazzi e palla mano per le ragazze. Ci siamo ammazzati di partite di calcio, scalzi, su campi di terra, con caprette qua e là, e spettatori sugli alberi o sui tetti in paglia. Tramonto, casa, doccia, cena insieme. Preghiera alle 20 nella cappellina con molti bambini dei villaggi. Ogni sera, alcuni di loro si fermano per qualche minuto in casa, si leggono alcune pagine di un Vangelo con illustrazioni in un francese semplice per i bambini. Il sabato sera invece è serata film. Ed è sempre sold out! I bambini rientrano nei villaggi al chiaro della luna o della torcia, tutto profondamente buio. Rimaniamo con padre Marco, lui fuma la pipa, Martino una sigaretta, io ripenso alla giornata. Nel mentre, una tisana fresca con una pianta che cresce lì. Due chiacchiere e buonanotte! Domani il gallo è puntuale!

«La prima missione la riceviamo tutti, con il Battesimo – ci ha detto una volta padre Marci -. Poi viene il resto, ma la prima missione per tutti, ed è questa». Buona missione allora! «Sussé!».