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Cuore nero del mondo

In trent’anni di presenza in uno dei Paesi più poveri e travagliati al mondo, i missionari betarramiti hanno realizzato parrocchie, scuole, progetti sociali. Che ora sono diventati anche una mostra
  Con la sua grafia minuta padre Arialdo segna le spese della missione su un quaderno a righe da trent’anni, precisamente dalla vigilia di Natale 1986 quando dalla Valtellina arrivò in una capanna a Niem, un villaggio nel nord-ovest della Repubblica Centrafricana. Siamo in uno dei Paesi più poveri e meno organizzati al mondo, nel cuore dell’Africa, tra Camerun, Ciad, Sudan e Repubblica Democratica del Congo, a due passi dall’equatore. Un Paese con difficoltà strutturali, continui colpi di Stato e un reddito reale pro capite di un euro al giorno; un territorio grande il doppio dell’Italia del quale solo il 3% è lavorato; una nazione spaccata a metà dall’analfabetismo e con un’aspettativa di vita di cinquant’anni. Per di più, uno Stato che dal 2013 vive una sanguinosa guerra civile e che, proprio per questo, Papa Francesco ha scelto come meta privilegiata per aprire un anno fa il Giubileo della Misericordia. Qui, lontano dai riflettori, lavorano i padri betarramiti, come padre Arialdo: missionari italiani della congregazione del Sacro Cuore di Gesù, nata a metà Ottocento presso il santuario di Bétharram, nei Pirenei francesi. «Sono venuto qui perché non volevo solo educare a parole i seminaristi, ma anche dare un esempio», comincia padre Mario Zappa, giunto 22 anni fa già ultracinquantenne in Centrafrica, riassumendo la missione sua e quella dei “colleghi” religiosi. Un manipolo di uomini che in trent’anni ha cambiato la regione del Nana Mambéré, cominciando con chiese di villaggio, passando per la costruzione di pozzi, ponti e quasi cinquanta scuole nella savana, e arrivando a realizzare un ospedale e un centro all’avanguardia per malati di Aids. Alla guida della sanità di Niem c’è Tiziano Pozzi, medico e prete, che una stanza alla volta ha costruito un dispensario con sala parto, reparti di degenza e pediatria, studio dentistico e laboratorio, cui s’aggiungerà presto una sala operatoria. Ogni anno “padre Titti” cura diecimila persone e dal 1991 ha fatto nascere novemila bambini, sconfiggendo la mortalità infantile per malaria. A 70 chilometri a sud-est, nella città di Bouar, opera invece fratel Angelo Sala, che coordina il Centro San Michele, una struttura specializzata nella cura dell’Aids che segue a livello domiciliare un migliaio di persone, più di ogni altra realtà simile presente nel Paese. L’équipe propone il test dell’Hiv, fornisce gratis la terapia ai pazienti e ne controlla l’osservanza: grazie ai farmaci antiretrovirali, infatti, anche in Africa l’Aids è diventata una malattia cronica come altre. Ma l’idea di doversi curare a vita resta un concetto difficile da far accettare. Oltre alla sanità, i betarramiti si occupano d’istruzione e agricoltura. Nel 1986 nella zona c’erano solo quattro scuole, troppo lontane per essere frequentate: oggi, grazie al lavoro meticoloso di padre Arialdo Urbani e ai fondi raccolti in Italia dalla onlus “Amici di Bétharram”, ne sono state aperte 43 che arrivano sino a 100 chilometri da Niem. Questo ha permesso a circa 50 mila bambini di poter studiare. Alcuni ex allievi oggi frequentano dei master all’estero, altri sono avvocati, altri ancora lavorano per l’Onu. Tra i molti progetti “inventati” a Bouar dal parroco padre Beniamino Gusmeroli, cinquant’anni, particolare successo ha avuto la fiera agricola annuale, nata per dare uno sbocco commerciale ai coltivatori locali: quest’anno, grazie a un accordo con il Programma alimentare mondiale (Pam), i prodotti saranno venduti a scuole e ospedali statali. Ma questo non è l’unico caso di collaborazione con organizzazioni internazionali: l’Onu ha commissionato ai betarramiti la ricostruzione di cinque ponti e il ripristino di una piantagione di caffè dismessa per dare lavoro agli abitanti. La guerra civile, invece, che ha contrapposto i fiancheggiatori del golpe, i Seleka, ai gruppi di autodifesa popolare detti anti-balaka ha suggerito ai missionari, supportati dall’Unicef, un progetto di reinserimento sociale per circa 150 ex bambini-soldato, che vengono così avviati a una professione. Gli stessi betarramiti sono stati toccati direttamente dal conflitto, subendo  rapine con kalashnikov e addirittura un sequestro-lampo nella missione di Bouar. Nonostante tutto, però, non si sono fatti intimorire. «Anche nei giorni più pericolosi, all’inizio del 2014, quando l’ospedale era pieno di sfollati – racconta padre Tiziano – le porte sono rimaste sempre aperte a tutti. La gente sapeva che poteva venire in qualsiasi momento e ci avrebbe sempre trovato». «Del resto – interviene candidamente Arialdo -, dove sarei dovuto andare? Qui la gente è con me e io con loro».

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