Mauritiania al voto col leader anti-schiavitù dietro le sbarre

Mauritiania al voto col leader anti-schiavitù dietro le sbarre

Alla vigilia dell’appuntamento elettorale è stato arrestato di nuovo Biram Dah Abeid, l’attivista che lotta contro la piaga che affligge ancora almeno 500 mila persone in questo Paese africano. Un modo spiccio per non farlo entrare in Parlamento

 

Domani la Mauritania andrà alle urne per le elezioni legislative e amministrative in un clima di tensione. Dal 7 agosto scorso, Biram Dah Abeid è di nuovo dietro le sbarre. Il noto attivista per i diritti umani, fondatore del movimento IRA Mauritanie che dal 2008 lotta in modo non violento contro la persistenza della schiavitù nel Paese africano, è stato arrestato per la quinta volta. Non è valsa a proteggerlo la sua notorietà internazionale: per il suo impegno, Biram è stato insignito nel 2013 del premio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani – che avevano ricevuto anche Martin Luther King e Nelson Mandela – e l’anno successivo è stato candidato al premio Nobel per la Pace. Grazie alla sua infaticabile attività di comunicazione, il dramma della schiavitù in Mauritania ha incontrato l’interesse di istituzioni e Ong estere.

Ufficialmente, in Mauritania la schiavitù non esiste: è stata abolita per legge nel 1981 e chi la pratica commette un reato. Eppure, stime non ufficiali parlano di 500-600 mila persone ancora soggette a qualche forma di servitù. Sono tutti neri, e i loro padroni sono bianchi, di etnia arabo-berbera, che detiene anche il potere politico ed economico nel Paese. Biram stesso è discendente di una schiava, ma è nato uomo libero. Il suo impegno punta a cambiare il sistema pacificamente, dal suo interno. In quest’ottica, nel 2014 si è presentato come candidato indipendente alle elezioni presidenziali e ha rinnovato la sua candidatura per la nuova tornata elettorale, che si terrà nel 2019. Nel frattempo, ha scelto di partecipare alle legislative e alle amministrative, che si tengono oggi e il 15 settembre prossimo.

Per capire quanto il regime mauritano detesti Biram basta un dato: in Mauritania ci sono circa 105 partiti politici, espressi da una popolazione di quattro milioni di abitanti. Da questa pletora partitica, resta tuttavia esclusa l’ala politica del movimento di Dah Abeid contro la schiavitù. Le autorità non l’hanno mai riconosciuta – al pari di IRA Mauritanie – e non può quindi partecipare alle elezioni. Quindi, Biram è sceso in campo allenandosi con il partito Sawab, che lo ha scelto come capolista e ha inserito fra i candidati anche volti noti di IRA Mauritanie. Fra di loro, spiccano due donne: Haby Mint Rabah, una delle prime schiave liberate, diventata un’attivista di spicco del movimento, e Adama Sy, vedova di un militare nero ucciso dal regime in un’ondata di epurazioni all’inizio degli anni Novanta.

L’alleanza di Biram con Sawab è inedita e interessante. Per la prima volta, il movimento antischiavista ha trovato un terreno comune con un partito presieduto da un arabo-berbero. Visto il sostegno di cui gode IRA Mauritanie a livello popolare, la campagna elettorale si è aperta con forti speranze che Biram potesse davvero varcare la soglia del Parlamento e far sentire la sua voce. Un’eventualità che l’arresto del 7 agosto scorso ha reso più complicata. Anche dal carcere, Biram resta capolista del partito e la campagna elettorale dei suoi sostenitori procede, pur essendo stata avvelenata dalle modalità che hanno portato al fermo di Dah Abeid.

Tutto è nato da un’intervista, che un giornalista mauritano ha chiesto a Biram. L’uomo avrebbe presentato in seguito una denuncia di minacce nei confronti di Dah Abeid, sulla base della quale il 7 agosto la polizia ha fatto irruzione nell’abitazione del leader antischiavista per arrestarlo. Curiosamente, come ha fatto notare IRA Mauritanie, il fermo di Biram è avvenuto lo stesso giorno in cui la Commissione elettorale nazionale indipendente ha consegnato la convalida delle candidature elettorali. Senza indicare il motivo dell’arresto, gli agenti avrebbero dichiarato che l’ordine veniva “dall’alto”. Il giorno dopo, due noti giornalisti del web sono stati arrestati. Amnesty International è subito intervenuta per chiedere “l’immediata fine degli arresti di giornalisti, esponenti dell’opposizione e attivisti contro la schiavitù in corso in Mauritania”.

Il 13 agosto, Biram è stato incriminato per “minaccia di violenza”, “aggressione volontaria alla vita e all’integrità fisica” e “incitamento all’aggressione”. Nell’attesa che la giustizia faccia il suo corso, Biram rimane progioniero.

Come ha dichiarato lui stesso in un documento fatto uscire dal carcere, “il presidente Mohamed Ould Abdel Aziz non sopporta che Biram Dah Abeid possa essere eletto in Parlamento, godendo così dell’immunità parlamentare”. Secondo IRA Mauritanie, questa mossa è stata architettata al fine di sottrarre Biram dalla campagna elettorale, sottolineando che in precedenza “minacce di ogni genere sono state proferite contro i leader d’opinione, ma nessun procuratore ha mai mosso un dito”. Al di là del fatto che i reati di cui è accusato Biram siano o meno veri, l’accanimento contro il leader antischiavista in questo momento chiave della campagna elettorale risulta quanto meno sospetto.

I risultati elettorali saranno un banco di prova importante per il partito del presidente, l’UPR, attualmente al potere. Si avvicina la scadenza del suo secondo mandato e per essere rieletto dovrebbe modificare la Costituzione. Abdel Aziz ha affermato di non aver intenzione di farlo, ma nel suo partito c’è chi ha lanciato una petizione perché resti per un terzo mandato. Modificare la carta costituzionale non sembra essere un problema: il presidente l’ha già fatto, con un referendum, lo scorso anno, cancellando il Senato. Uno dei principali oppositori di questa riforma, il senatore Mohamed Ould Ghadda, è ancora in prigione per presunti reati di corruzione. Il presidente, al potere dal 2008 con un colpo di Stato, non sembra amare le voci critiche.