Nessuno è un’isola

Nessuno è un’isola

Missionario, linguista, antropologo, padre Luigi Scantamburlo ha dedicato quasi quarant’anni alle popolazioni delle isole Bijagos. Senza perdere di vista gli sconvolgimenti che attraversano l’Africa

 

La “canoa” a motore di diciassette metri scivola fuori dal porto di Bissau carica di vettovaglie e di passeggeri occasionali. A bordo padre Luigi Scantamburlo, missionario del Pime, linguista e antropologo. È sulle isole Bijagos dal 1975, dove promuove cooperative di pesca e progetti di alfabetizzazione incentrati sul bilinguismo, che vuol dire partire con l’istruzione dei bambini dalla lingua del villaggio.

Dopo cinque ore di navigazione calmissima sotto un cielo plumbeo, che ci risparmia fortunatamente sia la pioggia che il sole dei tropici, approdiamo a Bubaque, piccolo capoluogo dell’arcipelago di circa 80 isole prospiciente la Guinea Bissau. Padre Luigi riassume con calma, ma anche con passione, un impegno missionario che si avvicina al mezzo secolo.

Come sei arrivato su queste isole per rimanerci per più di quarant’anni?

«Nel 1970 sono stato ordinato prete per il Pime. Poi ho fatto il giornalista per tre anni nella redazione di “Mondo e Missione”. Quindi sono andato negli Stati Uniti a studiare Storia delle religioni in vista della destinazione in India. La fama di “sessantottino” e contestatore, però, mi aveva preceduto e da laggiù fecero sapere che non ero del tutto gradito. I superiori mi proposero allora le Filippine o la Guinea Bissau. Scartai l’idea di andare a Manila a “litigare” col dittatore Ferdinando Marcos ed optai per la Guinea Bissau, che aveva appena ottenuto l’indipendenza dal Portogallo».

Subito alle Bijagos?

«Sì. Dopo lo studio del portoghese a Lisbona, sono venuto subito qui a raccogliere materiale per la tesi in Etnologia dei bijagos dell’isola di Bubaque, su cui mi ero orientato. Tesi poi completata negli Stati Uniti nel 1978 e pubblicata nel 1991».

Quali sono state le prime “scoperte” soprattutto dal punto di vista strettamente religioso?

«Anzitutto i bijagos credono in un essere supremo e creatore (nindo), che può essere identificato col Dio unico della tradizione giudaico-cristiana. Subito sotto ci sono gli antenati, che sono i veri e indispensabili intermediari col divino. Seguono gli irans, che secondo la filosofia animista africana sono forze della natura buone, perché proteggono, o negative e vendicative, perché difendono gli usi e costumi tradizionali e puniscono le trasgressioni. Grande importanza nella vita sociale riveste il rito di iniziazione, il fanado: è il momento in cui all’adolescente, maschio e femmina, sulla soglia della maturità vengono svelati i doveri personali e sociali, le tradizioni e i segreti del clan. Tutto deve rimanere riservato. Non partecipare al fanado vuol dire rimanere un eterno adolescente ai margini della comunità tribale».

Vale anche per gli “stranieri”?

Io stesso e altri missionari abbiamo partecipato al fanado per diventare a pieno titolo membri della comunità bijagos, vivere in mezzo a loro ed essere invitati alle riunioni degli anziani e alle cerimonie. Hanno moltissimi riti. Ad esempio, se tagliano un albero, anche per stretta necessità, hanno la consapevolezza di colpire un essere vivente e di alterare l’equilibrio della natura, un diritto che non si concedono a priori, come invece noi riscontriamo nel nostro libro della Genesi. La natura è padrona non l’uomo».

L’approccio dell’Occidente a questi popoli evidentemente non è stato così rispettoso…

«Nemmeno l’approccio della Chiesa e dei missionari. Per i portoghesi, fossero essi amministratori, militari o religiosi, si trattava solo di credenze superstiziose. Così l’Africa ha bisogno ora di recuperare soprattutto autostima, dopo essere stata sottomessa e depredata dai colonizzatori, aver subìto la tratta degli schiavi e aver visto la sua cultura e religiosità tradizionale disprezzata e buttata a mare. Non che l’incontro col mondo moderno sia, però, tutto negativo. L’istruzione, la medicina, la scienza, gli scambi internazionali arricchiscono molto l’Africa. Ma il continente ha molto da dare, non solo da ricevere».

Il tuo impegno missionario ha preso una forte piega sociale…

«Fino a un certo punto. Ho fatto anche lavoro pastorale, soprattutto sulle isole più remote, fuori dal centro di Bubaque, dove i missionari erano presenti con le loro attività dal 1954, e ho portato avanti studi linguistici per la traduzione della liturgia e della Bibbia in bijagos. Ho passato due anni a Lisbona (1994-1996) a questo scopo, lavorando con un giovane del posto sul materiale che avevo raccolto. In ogni caso già nel 1976 avevo aperto una piccola scuola per undici ragazzi sotto le cure di padre Benedetto Borgato, che non voleva mandarli in città a Bissau dopo la quarta elementare. Poi, al ritorno dall’America nel 1978, visti l’economia delle isole e il sostegno del governo di impronta socialista e popolare, ho lavorato nelle cooperative della pesca. Siamo riusciti a realizzare un centinaio di nuclei ed altrettanti ne sosteneva il governo. L’esperimento però è giunto al capolinea verso il 1993».

Quindi hai cambiato strategia?

«Più che altro abbiamo capito che ciò che può fare la differenza e cambiare in modo stabile le condizioni di vita della popolazione è solo la scuola. In Guinea Bissau, l’istruzione è un grande problema, perché oltre all’abbandono scolastico per difficoltà familiari o il lavoro nei campi, c’è anche una grave disorganizzazione governativa, soprattutto riguardo alla retribuzione degli insegnanti. Nelle nostre sette scuole alle Bijagos riusciamo a trattenere gli insegnanti perché integriamo il salario governativo con un nostro sussidio mensile sicuro. Il nostro metodo particolare è quello del bilinguismo. Nel senso che iniziamo l’insegnamento con il creolo locale. Solo gradualmente introduciamo il portoghese, in modo che le due lingue vengono più o meno a pareggiarsi a livello di sesta classe. La nostra scuola è anche interattiva. È previsto il dialogo tra insegnante ed alunni».

In che modo questa attività ha a che fare con l’impegno missionario?

«Il Regno di Dio precede la Chiesa. Quando segue la sua tradizione più genuina questa gente esprime una dimensione di fede e rivela retta coscienza. È una grande cosa. Sono i semi del Verbo. Naturalmente la realtà della famiglia è incerta a causa della poligamia e del matriarcato, in base al quale l’autorità domestica non è impersonata dal marito, ma dal fratello della moglie (lo zio materno per i figli). L’annuncio evangelico e la proposta cristiana non possono arrivare troppo presto, prima del fanado e dei vent’anni circa di età, quando la persona non ha ancora una stabilità di fondo; né troppo tardi, dopo i quarant’anni, quando la vita è sostanzialmente vissuta e i margini di cambiamento sono minimi o nulli. A mio parere, il battesimo per l’adulto può arrivare solo dopo che la persona stabilisce un legame sentimentale stabile con un partner e il catecumeno fa una sincera esperienza di Cristo. Nell’ambito familiare il passaggio alla monogamia cristiana è certamente un salto di qualità difficile da sottovalutare. Ma si imporrà col tempo e soprattutto con l’istruzione della donna».

Cosa aggiunge Gesù Cristo alla tradizione ancestrale in genere?

«Alcune cose le aggiunge, altre le ribadisce e le rafforza. Cristo è per tutti. L’egoismo e l’egocentrismo clanico sono quindi superati. L’eucaristia e i sacramenti in genere offrono un contatto col divino, ma attraverso un Cristo risorto, percepito come proto-antenato o fratello maggiore, quindi vivo, anche attraverso la sua parola e attraverso il suo spirito diffuso nel cuore dei fedeli. Questo supera probabilmente l’approccio magico tramite un intercessore ignoto e mai rivelato. Il rispetto degli antenati e la loro sopravvivenza facilitano naturalmente il culto cristiano dei santi e la fede nella vita eterna».

E che cosa aggiunge la scuola attraverso le scienze moderne?

«Il discorso sarebbe molto ampio e forse anche scontato. Faccio quindi solo un esempio. Quello dei corsi sulla salute. Non i corsi universitari di medicina. Ma la salute quotidiana e domestica, l’accudimento dei bambini, la pulizia, l’igiene personale… Imparare a capire che ci si ammala ed eventualmente si muore per negligenza o per ineluttabilità, non perché qualcuno te l’ha giurata o ti ha fatto una fattura… Tutto questo può cambiare molto la vita e i rapporti nel villaggio».

Se venissi oggi in Guinea Bissau cosa faresti?

«In questi quarant’anni è cambiato tutto. All’indipendenza nel 1975, la capitale Bissau aveva 80 mila abitanti. Oggi ne ha quasi mezzo milione, quasi un quarto di tutto il Paese. L’Africa si sta urbanizzando. Il passaggio dalla vita e dalla cultura di villaggio alla condizione urbana è catastrofico. I riferimenti morali e sociali tradizionali vengono meno, perché manca il controllo degli anziani e nulla è in grado al momento di rimpiazzarli. Non la fede religiosa, in genere troppo superficiale. Non lo Stato e i poteri pubblici corrotti e voraci. Non la famiglia in una fase di disgregazione. Neanche noi cattolici riusciamo ad aiutare in modo decisivo. Puntiamo tutto sulla Messa e i sacramenti in cui molta gente vede ancora una specie di rito magico. Trascuriamo la Bibbia, la cui lettura costante può offrire invece un orientamento di vita».