Camerun la lingua e la Parola

Camerun la lingua e la Parola

Cinquant’anni di presenza del Pime, più di quaranta dedicati alla traduzione dei testi sacri nella lingua locale dei tupuri. È l’esperienza di due missionari trapiantati nel Nord del Paese

Il Pime è presente in Camerun dal 1967, ma a partire dal 1974, grazie a padre Silvano Zoccarato, ha messo radici anche nel Nord, la parte più povera e meno cristianizzata del Paese. Lì, l’attività evangelizzatrice ha riguardato (e riguarda) soprattutto due popoli: i tupuri e i giziga, ancora in gran parte dediti a lavori tradizionali come agricoltura, pastorizia, artigianato e piccolo commercio.

Nel Nord Camerun l’evangelizzazione risale a poco più di cinquant’anni fa. Dal punto di vista del numero dei sacerdoti si sono fatti enormi passi avanti, ma in molte aree si è ancora alla prima evangelizzazione. I missionari del Pime, quindi, si sono trovati davanti all’esigenza di tradurre la Bibbia nelle lingue locali e di imparare e valorizzare la cultura dei popoli tupuri e giziga.

I padri Piergiorgio Cappelletti e Mario Frigerio vivono e operano in Camerun rispettivamente da 47 e 43 anni: autentiche “colonne” della presenza Pime in quel Paese. Da molto tempo risiedono insieme a Toulum (diocesi di Yagoua), nel Nord, dove hanno diretto a lungo la parrocchia locale, che comprende una ventina di villaggi cristiani. Una parte rilevante dell’impegno missionario dei due anziani padri si è riversata nella traduzione della Parola di Dio nella lingua dei tupuri.

Racconta padre Cappelletti: «Negli anni Settanta era diffusa l’idea secondo cui la trasmissione del Vangelo andasse svolta secondo il metodo africano, ossia oralmente. Nella liturgia della domenica, per questo motivo, si leggeva solo un testo, quello del Vangelo. A un certo punto, il nuovo vescovo di Yagoua, Christian Tumi (primo africano a essere nominato in quella diocesi e successivamente primo cardinale a Douala, ndr), ha voluto cambiare le cose e celebrare la liturgia “come a Roma, con tre letture”. Lì per lì, la decisione apparve un po’ ostica da digerire, ma di fatto si è rivelata provvidenziale, perché così è nato il nostro progetto di tradurre le letture bibliche e liturgiche del messale». Continua: «È stato un lavoro progressivo, che ha richiesto anche a noi un cambio di mentalità: io, ad esempio, inizialmente pensavo che potesse bastare tradurre la Bibbia, non avevo idea che il messale fosse veramente uno strumento di evangelizzazione. Il merito di questo cambiamento di prospettiva è di padre Mario, che – testardo com’è – è riuscito a farlo passare».

Interviene padre Frigerio: «Nel complesso, ormai sono circa quarant’anni che lavoriamo sul versante delle traduzioni e posso dire, senza dubbi, che è stato un cammino di arricchimento reciproco: da parte della cultura tupuri nei nostri confronti e viceversa. Abbiamo la fortuna di avere un traduttore ben preparato, Welga Pascal, che collabora a questo progetto da quasi trent’anni, conosce bene la sua lingua e la sua cultura (proverbi, racconti, tradizioni…)».

Nell’équipe che lavora alla traduzione il ruolo di padre Mario è quello di consigliere, avendo studiato per tre anni Sacra Scrittura a Roma. «Di recente – racconta senza trattenere la soddisfazione – abbiamo avuto la visita dell’arcivescovo di Douala, originario di questa regione: è un biblista, apprezzato ed è venuto a incoraggiarci perché vorrebbe pubblicare la Bibbia completa in tupuri».

Il lavoro è a buon punto, anche se manca tutta la revisione esegetica del testo del Vecchio Testamento che non si trova nel messale; viceversa, tutti i testi della liturgia domenicale, di alcune feste e dell’iniziazione sono pronti, come pure i Salmi, fra i quali alcuni sono stati già musicati. Per quello che concerne il Nuovo Testamento, tutto il materiale è anch’esso pronto, anche se richiede una revisione per essere pubblicato. Precisa padre Cappelletti: «Va detto che tutta la parte liturgica viene letta in pubblico da molto tempo, dunque ha avuto già un “collaudo sul campo” ed è abbastanza consolidata e accettata».

Tante volte, in questi anni, i due missionari si sono misurati con un’obiezione radicale: «A che serve questo lavoro? Tanto, presto o tardi, parleranno tutti francese…». Padre Piergiorgio non è d’accordo: «Quando sono arrivato in Camerun, quasi cinquant’anni fa, lo si andava ripetendo continuamente. La verità è che adesso la situazione è peggiore di allora. I ragazzi che vanno al liceo parlano talmente la loro lingua da avere un livello di francese bassissimo».

Gli fa eco padre Mario: «Al di là del problema squisitamente linguistico, c’è una questione fondamentale: l’animo e la logica di un camerunese non sono quelli di un francese. Io stesso parlo francese e mi accorgo che posso gustare alcune espressioni di quella lingua, ma questo non riguarda il profondo del mio animo, della mia sensibilità, dei miei sentimenti. Un’evangelizzazione che voglia davvero toccare il cuore della gente, che possa far nascere un’adesione interiore gioiosa, veramente libera, può passare solo nella propria cultura e nella lingua locale».

E aggiunge con una punta di vis polemica, com’è nel suo stile: «Certo che, secondo il “mondo”, tutto questo è una perdita di tempo, uno spreco. Ma per un missionario non è così. Questa è la ragione di fondo del nostro lavoro, unicamente questa: dare radici interiori alla fede nei cuori dei credenti. Veniamo da un periodo in cui le traduzioni erano fatte con un certo pressapochismo. Non solo: il problema del tradurre è anche quello di costituire un linguaggio cristiano capace di esprimere se stesso. La sfida è che sia un linguaggio autentico, non artificiale, ma nello stesso tempo profondo, capace di esprimere un mondo culturale come cristiano».

In Camerun, le traduzioni precedenti del testo biblico non davano questa possibilità. Continua padre Piergiorgio: «Per arrivare a un testo che fosse più vicino alla loro cultura, abbiamo studiato i proverbi, i racconti, i canti dei tupuri. Una grande rivoluzione è stata questa: abbiamo proposto i salmi con ritornelli adatti, mentre la musica l’hanno messa loro. I compositori hanno fatto il loro mestiere, ma il contenuto era la Parola di Dio. Del resto, non c’è una preghiera migliore del salmo. Adesso abbiamo tantissimi canti di questo genere, circa ottanta salmi. Il problema di fondo è che nei loro canti, pur composti da cristiani, prevaleva e tende a prevalere la componente religiosa tupuri, che assegna un ruolo fondamentale al Maligno, agli spiriti. Di contro, non c’era nessun canto sulla Parola, sul battesimo, sulla bellezza di essere cristiani. Ma questo accadeva anche in ragione del fatto che, come detto, i testi di cui disponevano non erano adatti a trasmettere lo spessore della fede e andavano necessariamente rielaborati».

Commenta padre Mario: «Con questo lavoro, abbiamo cercato di ricondurre queste comunità, fondate prima del Concilio ed educate con il catechismo di Pio X, alle fonti autentiche della fede, alle fondamenta degli apostoli». E ancora: «Sono convinto che le vere conversioni, autentiche anche se a volte lente, vengono sempre da un cammino interiore e personale, a contatto con la Parola di Dio. Se essa ha posto radici nel profondo, dal di dentro, un giorno, verrà la conversione, verrà il cambiamento, con tutta la lentezza dei passaggi umani».

Più in generale, la sfida dell’inculturazione si gioca nel riuscire a innestare i valori evangelici sul tronco della cultura tradizionale. Padre Piergiorgio ammette: «La grande difficoltà per noi missionari consiste nel riuscire a seguire i giovani cristiani da uomini adulti e maturi, padri e madri di famiglia, ossia fare in modo che quello che facevano da giovani (perché obbligatorio), lo vivano anche da adulti, liberamente, perché convinti. Il problema è che i nostri fedeli hanno una grande mobilità territoriale, si spostano spesso e diventa difficile un accompagnamento pastorale. A ciò si aggiunge il fatto che, per molti, il battesimo rappresenta una meta, raggiunta la quale si è a posto per tutta la vita, anziché essere un punto di partenza per maturare una vita cristiana».

Padre Mario, a sua volta, si dice convinto che, per parlare di stabilità di fede, in una famiglia cristiana, occorra procedere con grande gradualità e pazienza. «Il segno di un’effettiva adesione alla fede adulta e consapevole? Innanzitutto, la fedeltà nel matrimonio. Il periodo attorno ai 35-40 anni per l’uomo e 25-30 per la donna è quello decisivo: o diventano definitivamente cristiani o ritornano alla tradizione animista. Il terreno fertile sul quale il seme della Parola fruttifica è la vita quotidiana orientata a Dio, senza nulla di straordinario; è la capacità di riflessione interiore, di preghiera, il che poi si traduce in un “vedere e giudicare” i comportamenti secondo il Vangelo».

Insiste: «In Africa, un prete può chiedere ai cristiani di dire più rosari al giorno, passare una notte continua in preghiera, partecipare alla Messa domenicale di tre o più ore e nessuno si tirerà indietro. La gente è abituata a prendere parte a Messe, pellegrinaggi o adorazioni interminabili. Ma la conversione interiore del cuore è un’altra cosa. Cambiare la vita secondo il Vangelo è affare ben diverso».