Il Pime piange padre Nello Ruffaldi, dal 1971 missionario tra gli indios di Oiapoque alla frontiera tra il Brasile e la Guiana Francese, tra i fondatori del Consiglio indigenista missionario. Lo ricordiamo con una sua testimonianza in cui raccontava l’incontro con gli indios, le battaglie combattute accanto a loro e gli amici come suor Dorothy Stang uccisa per l’Amazzonia
Non ha retto il grande cuore di padre Nello Ruffaldi, missionario del Pime dal 1971 tra gli indios di Oiapoque, alla frontiera tra il Brasile e la Guiana Francese. È morto stamattina per le conseguenze di un infarto che lo aveva colpito all’inizio del mese. Lo ricordiamo con le parole da lui pronunciate in una testimonianza tenuta a Milano qualche anno fa: il racconto del suo incontro con gli indios, il cammino con loro, gli amici come suor Dorothy Stang che aveva visto uccidere per quelle battaglie per la giustizia. Queste sue parole sono un’eredità preziosa anche per il Sinodo per l’Amazzonia che padre Ruffaldi aspettava con gioia e tante speranze.
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Quando arrivai nell’Amapá il vescovo mi invitò ad andare a Oiapoque, il municipio più a nord del Brasile, alla frontiera con la Guiana francese. Scoprii che la metà della popolazione là era costituita da popoli indios, quattro per precisione: Karipuna, Galibi kaliña, Palikur e Galibi-Marworno. È vivendo giorno per giorno con loro, da quel gennaio 1971, che si è delineata la mia seconda vocazione: vivere al servizio del Vangelo tra i popoli indios. Proprio in quegli anni nasceva il Cimi – il Consiglio indigenista missionario – di cui feci parte fin dal suo nascere: si proponeva una nuova maniera di realizzare la missione, come risposta alla fame di dignità di quei popoli. Così, su invito della Chiesa, questa missione si allargò agli stati del Pará e Amapá (un territorio vasto quasi cinque volte l’Italia) e poi a tutto il Brasile. Anche quando gli indios non lo dicevano percepivo la fame di salute, di educazione, di una religione che li aiutasse a vivere. E una fame di autostima, che era molto bassa. Fame di dignità, perché fondamento della dignità di una persona e di un popolo sono i suoi diritti riconosciuti e rispettati.
Appresi dalla storia degli indios in Brasile che i loro diritti erano stati sistematicamente negati fin dall’epoca della Conquista (chiamata «scoperta»): la terra fu occupata, la cultura e la religione negate come assenti o ritenute demoniache, la mano d’opera usata in regime di servitù e schiavitù. Ancora in quegli anni Settanta la situazione non era affatto favorevole a loro. Da parte del governo brasiliano incaricata degli indios era la Funai – Fondazione nazionale degli indios – un ente il cui compito, di fatto, era quello di impedire che queste persone fossero un ostacolo allo “sviluppo”. Con l’apertura dell’autostrada Transamazzonica, nel 1972, la Funai doveva avvicinare le tribù non ancora contattate, addomesticarle e circoscriverle in un territorio determinato, quando non trasferirli.
Nel 1978 il ministero dell’Interno – a cui la Funai rispondeva – lanciò un nuovo grande progetto: abolire gli indios attraverso l’emancipazione. Senza ucciderli, ma facendo comunque di tutto per far perdere loro la propria identità e poi dichiararli “non indios”. Che voleva poi dire cittadini brasiliani comuni senza più diritto a terra, senza più cultura, senza più lingua. Annunciando il progetto l’allora ministro Rangel Reis dichiarò: «Oggi abbiamo 200 mila indios in Brasile; se Dio vorrà alla fine del secolo ne rimarranno 30 mila fino alla completa sparizione». La reazione della società fu massiccia, guidata propria dalla Chiesa. Nacquero varie istituzioni in difesa dei diritti dei popoli indios. Alla fine quel progetto si è rivelato un fallimento per il governo: nell’ultimo censimento in Brasile sono più di 800 mila le persone che si sono registrate come indios.
All’inizio a Oiapoque la gente ignorava tanto la propria situazione giuridica, quanto ciò che succedeva nel resto del Brasile. Si vergognavano di essere indios: della lingua che parlavano, degli abiti che vestivano, del tabacco che fumavano, del cibo che mangiavano. C’erano due scuole, ma quasi nessuno arrivava alla quarta elementare. La salute era molto precaria. Per saziare la loro fame di dignità bisognava compiere un cammino inverso: partire da loro, riaccendere il fuoco della dignità diventato brace coperta dalla cenere di una lunga storia, di una società discriminante, di una Chiesa che non riconosceva ancora la dignità e la ricchezza che possedevano.
Incominciai a visitare gli indios, a conoscerli, ad ascoltarli, a dormire nelle loro case, a mangiare il cibo che mi offrivano. Facevo notare le cose belle che gli antenati avevano lasciato loro come eredità: la percezione della presenza di Dio in tutti i momenti della vita, la comunione con gli animali e gli alberi, la capacità di condividere quello che avevano con gli altri, la pazienza e il rispetto nell’educazione dei figli, la vita comunitaria, il lavoro come incontro e festa. Il Vangelo e la cultura degli indios erano vicini in molti aspetti. Iniziammo promuovendo incontri, studi e assemblee: era il confronto tra vita e Vangelo. Cominciarono le iniziative per migliorare la salute, l’educazione, il culto domenicale, l’organizzazione.
Una tappa importante fu l’invito rivolto da un capo villaggio a suor Rebecca per imparare la loro lingua e avviare una scuola di alfabetizzazione. Fu un vero scambio: arrivammo alla lingua scritta attraverso corsi realizzati anche nel villaggio. Tutto era discusso insieme: si scelse l’alfabeto, si studiò la grammatica. La comunità scelse tra i suoi giovani alcuni maestri e maestre. Suor Rebecca li preparò, nacque la prima scuola di alfabetizzazione che in pochi anni si allargò a quasi tutti i villaggi.
Intanto i capi indios erano invitati a partecipare a incontri a livello regionale e nazionale. Così le persone crescevano: la terra veniva regolarizzata, gli indios diventavano una forza politica organizzata. Si cominciò a parlare della nostra lingua, delle nostre tradizioni, della nostra cultura. Ricordo un piccolo episodio significativo, avvenuto nel 1982: un funzionario della Funai, volendo fare un complimento, disse a un capo caripuna: «Tu ormai non sei più indio. Sei uno di noi, civilizzato». E lui: «No, io sono indio grazie a Dio, e sono orgoglioso di questo». A dirlo era uno che anni prima sosteneva il contrario: la necessità di essere civilizzati per poter essere alla pari. Oggi invece l’identità indios è la mentalità comune, risorta a partire dalla conquista del diritto alla terra, alla lingua, alla cultura, alla religione, alle tradizioni, alla salute, all’educazione, all’organizzazione, all’autonomia.
Si tratta comunque di una sfida che resta aperta. Perché anche se la legislazione oggi riconosce i diritti degli indios, la pratica li nega: la conquista è una lotta permanente che comporta vittorie e sconfitte e un confronto continuo con le forze contrarie. I nemici dei diritti e della dignità si trovano in mezzo a noi e anche dentro noi stessi. Negli ultimi vent’anni la prossimità tra gli indios e la società esterna è divenuta più intensa e frequente. La globalizzazione è entrata nei villaggi con la televisione, l’energia elettrica, il telefono, la presenza di organizzazioni governative e Ong, la presenza di soldi attraverso stipendi, pensioni, progetti. La cultura tradizionale è in crisi: oggi gli indios sono chiamati a scegliere se conservare e valorizzare ciò che prima ricevevano, con l’educazione tradizionale, nascendo in un villaggio. E allora: come conservare i valori tradizionali in una società globalizzata? Come missionari per noi questa sfida ha anche il volto della teologia india che, a partire dalla realtà, propone di recuperare i valori tradizionali che, insieme al Vangelo, si costituiscono come alternativa a un modello di società che conduce alla distruzione, all’egoismo e alla divisione.
Stare dalla parte degli indios significa inoltre ristabilire la comunione con la natura; accettare che noi siamo parte di lei. La natura è stata spogliata della sua dignità quando è stata ridotta a merce. Per tutti i popoli indios la terra è Pachamama, la terra è madre, è parte di noi e noi parte della terra. E invece abbiamo ridotto la natura e quello che produce a merce di scambio: la terra e i suoi prodotti, diventati merce, sono diventati oggetto di competizione, di lotta. La società mercantilista del 1500 si lanciò alla conquista del nuovo mondo, alla ricerca di ricchezze, di beni. Oggi, finita l’epoca delle colonie, siamo arrivati a riconoscere i diritti alle culture dei popoli indios. Ma di fatto ancora li giudichiamo come selvaggi, retrogradi, per avere il diritto di ridurli a essere come noi, a pensare come noi, a vivere per noi consegnandoci la terra e le ricchezze. E non solo loro, ma anche la ricca e meravigliosa foresta è definita selvaggia, negandole il diritto a esistere: anche la natura ci deve servire e deve essere dominata.
Forse conoscete la famosa lettera di Seatle, rappresentante del popolo Duwamish, al presidente Franklin Pierce, nel 1854, rispondendo alla proposta di comprare le sue terre: «Quest’idea ci è sconosciuta. Come si può comprare la terra, l’aria, l’acqua, gli animali?». La terra per gli indios è madre: la natura ha bisogno di riconquistare la sua dignità. Non si può essere missionari e non sentirci responsabili della situazione della natura, che il Signore ci ha dato come casa comune.
In poco meno di quarant’anni sono stati abbattuti nell’Amazzonia brasiliana, alberi per una estensione di 700 mila chilometri quadrati. La media della distruzione della foresta è tra i 25 mila e 30 mila chilometri quadrati all’anno. Attualmente è in corso un progetto di legge per far crescere l’agricoltura e diminuire la foresta. Il deputato Aldo Rabelo, relatore di questo progetto, descrive i popoli indios come pidocchiosi, «completamente dominarti dalle forze della natura, camminando seminudi, abitando capanne insalubri, infestate di insetti e fumo, lottando in condizioni assolutamente diseguali contro l’ambiente ostile, che non gli permetteva di superare le condizioni di vita rozze e primitive in cui vivevano i loro antenati». E continua: «Le stesse considerazioni valgono per la conquista economica dell’Amazzonia: lotta tenace dell’uomo contro la foresta, contro l’acqua, contro l’eccesso di vitalità della foresta e contro la disordinata abbondanza di acqua dei suoi fiumi ».
Così si auspica la distruzione della foresta amazzonica nata in milioni di anni, con la più ricca biodiversità del mondo, in cambio di una monocultura di esportazione, di uno sfruttamento irrazionale che non prende minimamente in considerazione i suoi abitanti. Il tutto senza considerare che l’Amazzonia non è terra per l’agricoltura. Nata dove prima esisteva un oceano si è autocreata con l’abbondanza di sole e acqua; e il suo terreno – se si tolgono i 30 o 40 centimetri di humus creato da lei stessa – è costituito da sabbia. Bastano due o tre anni di agricoltura per farla diventare terra degradata che non serve più a niente.
Così la terra in Brasile è diventata luogo di conflitto. C’è una sete smisurata di speculare sulla terra, di appropriarsene. In Brasile l’uno per cento dei proprietari possiede più del 50 per cento della terra del Brasile. Lo Stato del Pará ha il record del lavoro in regime di schiavitù. Il procuratore di giustizia della Prima Regione José Marques Teixeira, ha dichiarato pubblicamente che nel Pará si sono registrati negli ultimi dieci anni, 219 omicidi nell’area rurale. Ma solo quattro assassini sono stati condannati.
Che fare – allora – in questa situazione? Mettersi dalla parte dei senza terra, vivendo con loro, facendo rinascere la speranza di poter affrontare i grandi e potenti, di amare e coltivare la terra, rispettando la foresta. E poi stare con loro fino a dare la vita se necessario.
Con i popoli indios è stato così: nel luglio 1976 frequentavo un corso di indigenismo all’università di Goiania. Arrivò la notizia: «Hanno sparato a Padre Rodolfo. È morto!». Padre Rodolfo era salesiano; viveva nella missione tra i bororo, nel Mato Grosso, e morì insieme all’indio Simone per difendere il diritto alla loro terra. Era stata riconosciuta ma il fazendeiro non era rimasto contento.
Tre mesi dopo, un altro collega del Cimi – padre João Bosco Benito Burnier, gesuita, sempre nel Mato Grosso – fu assassinato alla vigilia della festa della Madonna Aparecida perché aveva preso le difese di una donna torturata. Erano colleghi, amici, persone molto equilibrate e miti. Era la prima volta che il sangue dei missionari si mischiava con il sangue degli indios. Per me quello fu un momento in cui mi consacrai al Signore in questa missione, deciso a andare «fino alla fine». Ed è il sangue di questi e tanti altri martiri che mi ha aiutato a continuare, a credere, a sperare.
Un altro esempio di una vita al fianco dei lavoratori e in difesa della foresta è stato infine quello di suor Dorothy Stang, che fu una mia carissima amica. Da quando è venuta in Brasile ha accompagnato i contadini in cerca di terra e futuro. Mandata nel Maranhão per iniziare una scuola per la classe media, insieme alle sue consorelle scelse l’educazione popolare per saziare la fame di dignità. Seguì la colonia di migranti nel Pará alla ricerca di terra e poi nella Transamazonica. Costruì scuole e dispensari per il popolo e con il popolo. Visse due anni in uno stanzino senza finestre, messo a disposizione da un agricoltore nella sua casa, dormendo in un povero giaciglio sulla terra nuda. I contadini si sentivano appoggiati da questa signora con più di 70 anni che si rivolgeva ai governatori, ai deputati, ai senatori e ministri, sventolando i diritti che la legge riconosceva. Finché il 12 febbraio 2005 accadde quello che si poteva prevedere. Due poveri diavoli a cui il consorzio dei madeireiros aveva promesso 50 mila reais – l’equivalente di circa 22 mila euro -, l’aspettarono sul cammino che portava al luogo dove i contadini erano riuniti. «Che cosa porti nella borsa, un’arma?». «La mia arma è questa», disse mostrando la Bibbia e – aprendo il brano delle Beatitudini – incominciò a leggere: «Beati i poveri. Beati i miti…». «Vecchia, vedo che non abbiamo più niente da dirci». Arrivarono i sei colpi che la colpirono alla testa, al cuore e all’utero. E così anche lei ci ha mostrato che saziare la fame di dignità vuole dire essere capaci di dare la vita. Perché il cammino percorso in Amazzonia possa continuare.
Sul contesto di Oiapoque dove padre Nello Ruffaldi svolgeva la sua missione leggi questo articolo pubblicato su Mondo e Missione nel dicembre 2016
Padre Nello Ruffaldi fino all’ultimo ha seguito con entusiasmo i lavori preparatori del Sinodo per l’Amazzonia, convocato dal Papa per il prossimo mese di ottobre a Roma. Così all’indomani dell’annuncio commentava l’importanza di questo evento su Mondo e Missione in questo articolo
Durante tutto il 2017 padre Nello Ruffaldi aveva tenuto su Mondo e Missione la rubrica «Frontiera Oiapoque» nella quale raccontava i suoi incontri con la gente in questa periferia dell’Amazzonia. Clicca qui per leggere i suoi articoli
Al Sinodo e all’eredità che padre Nello Ruffaldi ci lascia è legata anche la campagna «Il grido dell’Amazzonia» che il Centro missionario Pime sta promuovendo in questo 2019. Guarda qui il sito della campagna www.amazzonia2019.com