San Romero e il Salvador di oggi

San Romero e il Salvador di oggi

Il cardinale Rosa Chávez, che fu suo stretto collaboratore, racconta l’attualità per il suo Paese del magistero dell’arcivescovo martire che Francesco proclamerà santo il 14 ottobre insieme a Paolo VI

 

«La canonizzazione di Oscar Arnulfo Romero il 14 ottobre? Sarà come uno tsunami spirituale, perché si rinforzeranno la fede, la devozione e la volontà di camminare sui suoi passi. La gente ha riscoperto la figura di Romero. Per tanto tempo la sua reputazione è stata infangata; è stato detto che era un comunista, un guerrigliero. In realtà, nessuno come lui era libero da qualsiasi ideologia. Credeva solo nel Vangelo. Era un uomo santo che ha offerto la sua vita a Cristo».

Gregorio Rosa Chávez, vescovo ausiliare di San Salvador, è stato amico e stretto collaboratore di monsignor Romero. Creato a sorpresa cardinale da Papa Bergoglio nel 2017 (il primo cardinale nella storia del Salvador) ha custodito e rilanciato l’eredità spirituale di Romero, condividendo in pieno la scelta evangelica per i poveri e l’impegno per la pace e la riconciliazione del suo martoriato Paese. È naturale, quindi, ascoltare da lui come il Salvador si sta preparando al 14 ottobre, il giorno in cui a Roma Francesco, il Papa venuto dall’America Latina, proclamerà santo – insieme a Paolo VI – Monseñor, come tutti i suoi concittadini chiamavano l’arcivescovo assassinato il 24 marzo 1980 mentre celebrava la Messa. «In Salvador – racconta Rosa Chávez – è nato un nuovo segno di devozione. Il giorno del suo compleanno, il 15 agosto, si usa regalare una pianta di rosmarino agli amici, parola che in spagnolo si dice appunto “romero”. Così in ogni casa c’è una pianta di Romero, il santo del cuore».

L’omicidio di Romero in Salvador inaugurò dodici anni di guerra civile, quel conflitto che l’arcivescovo temeva e aveva cercato in ogni modo di evitare. Aveva denunciato profeticamente gli abusi del governo autoritario tentando invano di convincerlo a varare delle riforme per i contadini. Al contempo aveva esortato l’opposizione a non rispondere con la violenza ai soprusi. Romero ancora oggi resta un testimone eloquente dell’amore incondizionato per i poveri, che continua a muovere e commuovere le coscienze del suo popolo. I mali che denunciava hanno forse volti diversi, ma restano radicati nel Paese: le disuguaglianze sociali, l’indigenza e la violenza che spingono i salvadoregni a emigrare, le maras (le bande di strada) coi loro giovani criminali che tengono in ostaggio gran parte del territorio. Proprio le gang oggi sono la nuova emergenza nazionale. Nate nei ghetti di Los Angeles, dove erano riparati i giovani profughi della guerra civile negli anni Ottanta, sono state reimportate in patria grazie alle espulsioni di massa del decennio successivo. E così poco alla volta si sono radicalizzate, diventando gruppi criminali; le mafie dei poveri, le chiamano.

Eminenza, mons. Romero ci ha insegnato che la violenza ha molte facce. La prima è l’ingiustizia, la seconda è l’emarginazione. Oggi il crimine è come una guerra. Che cosa direbbe Romero a un ragazzo delle maras?
«Direbbe che la violenza non si combatte con la violenza. In Salvador ci sono leggi speciali contro le maras che, invece di risolvere il problema, hanno provocato un’escalation della violenza. La situazione è peggiorata. La violenza ha portato altra violenza. Per non cadere nella trappola mortale della brutalità bisogna riscoprire il valore della vita. Riaprire la strada del dialogo. Oggi, Romero direbbe a quei giovani che anche per loro c’è un futuro. La Chiesa salvadoregna auspica una legge che tuteli le vittime della violenza e che aiuti i mareros a reinserirsi nella società onestamente, a rifarsi una vita. È un problema molto urgente, ma la strada non è quella della repressione e della violenza».

Il Salvador è il terzo Paese più violento del mondo. Le famiglie fuggono dalla violenza. Il numero dei migranti e dei “desplazados” (gli sfollati) è in continuo aumento, come non accadeva dai tempi della guerra civile. Che cosa direbbe Romero ai salvadoregni che emigrano?
«Direbbe loro che tutti hanno il diritto di crescere i loro figli in modo dignitoso. Questo principio vale ieri come oggi. Oggi, l’emigrazione è un problema centrale. È un fenomeno che nasce dal desiderio di una vita migliore, ma lasciare il proprio Paese e i propri cari porta con sé sacrificio e sofferenza. La povertà e la violenza spingono i salvadoregni a emigrare. Si emigra per dare da mangiare ai propri figli, perché non si ha più una casa, portata via dalle bande criminali, o per sottrarre i propri figli alle maras, che reclutano i ragazzi promettendo loro soldi facili in cambio della vita».

Oggi lo sguardo profetico di Romero quali altri aspetti della realtà salvadoregna illuminerebbe?
«Quello di Romero è uno sguardo di compassione verso la gente che soffre. Verso i poveri, gli emarginati, gli esclusi. Ma anche verso coloro che detengono il potere economico, politico e militare, per aprire le loro coscienze verso i più deboli. Oggi rivolgerebbe uno sguardo particolare verso la Chiesa, affinché si concentri sui poveri. Affinché sia una Chiesa che cammina e soffre con la gente, che dia la vita per i poveri. Per Romero la gloria di Dio è il povero che vive. Lui vorrebbe una Chiesa povera, missionaria e libera dal potere. Povera e per questo libera, con uomini di Chiesa poveri e liberi».

Con questa santificazione Romero oltrepassa i confini dell’America Latina e diventa san Romero di tutto il mondo. Che modello di santità è quella di Romero?
«Monsignor Romero è un difensore dei diritti umani. Per questo la sua figura va oltre le frontiere della Chiesa cattolica. Evoca valori universali come la giustizia. È un modello di santità alla ricerca di un mondo più equo. Era un uomo innamorato di Dio, ma capì che non si poteva amarlo senza fare i conti con la povertà e le iniquità del mondo. Tanta gente che si affida a lui vede in Romero un modello di uomo da seguire. Oscar Romero ci ha insegnato che siamo cristiani solo se doniamo la nostra vita. Questa è la logica di Gesù. Il sangue dei martiri è il seme della Chiesa».

Il 14 ottobre in piazza San Pietro monsignor Romero sarà proclamato santo insieme a Papa Montini. Cosa rappresentava Paolo VI per Romero?
«Montini è una figura centrale nel pensiero di Romero. Tra questi due santi ci sono molti punti in comune. Paolo VI si interessò personalmente all’America Latina, ai suoi problemi, ai suoi conflitti. Entrambi sono autentici interpreti del Concilio Vaticano II e il loro destino fu segnato dalle calunnie. Paolo VI si confrontò con i detrattori di Romero: in Vaticano arrivò ogni tipo di maldicenza e Papa Montini fece da “parafulmine”. Ricevette monsignor Romero tre volte. Lo comprese e lo rincuorò. Nell’aprile del 1977 gli disse: “Animo, es usted que manda!” (Coraggio, è lei che comanda). Paolo VI fu un padre e un maestro per Romero, ispirò la sua opera di evangelizzazione, la sua continua ricerca del dialogo e la sua pastorale».

Quanti salvadoregni arriveranno a Roma per la canonizzazione?
«Siamo riusciti ad avere riservati cinquemila posti in piazza San Pietro. Per i salvadoregni la canonizzazione del 14 ottobre sarà un momento straordinario. Certo, non tutti i fedeli potranno partecipare al pellegrinaggio. Ma tutto il Paese si raccoglierà in preghiera. Nelle parrocchie il giorno della vigilia si celebreranno delle veglie di preghiera, in attesa della Messa solenne. Quando in Italia inizierà la celebrazione, in Salvador saranno le due del mattino. A quell’ora ci sarà il collegamento televisivo per seguire dal vivo la canonizzazione».

Romero sarà uno dei patroni della Giornata mondiale della gioventù di Panama a gennaio. I giovani salvadoregni lo conoscono? È ancora attuale il suo messaggio per i giovani?
«Romero è un punto di riferimento per tutti i salvadoregni. Al pellegrinaggio che ripetiamo tutti gli anni, nell’anniversario del martirio, camminiamo per più di 150 chilometri, dalla capitale a Ciudad Barrios, la città natale di Romero. Partecipano centinaia di giovani salvadoregni. Questa è la dimostrazione che Romero è presente anche tra i giovani. I ragazzi lo stanno riscoprendo e gli sono devoti. Per loro è un modello, un intercessore. Nel suo esempio trovano speranza, coraggio e forza per cambiare. E spero che continuino ad interessarsi a lui e seguano il suo insegnamento».

Che cosa accadde a Romero dopo la morte del suo amico gesuita Rutilio Grande? È vero che Romero cambiò dopo quel giorno?
«Romero stesso rispose a questa domanda e disse che in lui ci fu un’evoluzione. L’assassinio di padre Rutilio, avvenuto un mese dopo l’inizio dell’episcopato, fu un segno di una nuova conversione evangelica. Quando era vescovo di una piccola provincia guardava la violenza in modo diverso e la sua risposta era assistenziale. Ma quando divenne arcivescovo della capitale scoprì quella che chiamiamo l’ingiustizia strutturale e la violenza istituzionale. Scoprì un sistema in cui il potere politico economico e militare vessava i più deboli. Fu allora, in quel preciso momento storico, che sentì la chiamata di Dio a denunciare le ingiustizie. Intuì di essere giunto ad un punto di non ritorno. E si mise in cammino».

Qual è il ricordo più bello che custodisce di monsignor Romero?
«Si può riassumere in una parola: “amicizia”. Monsignor Romero mi fece un grande dono, un’amicizia, lunga, sincera e profonda. Quando penso a lui provo una grande emozione ricordando il suo affetto. Già da ragazzo, tutte le mattine seguivo il suo programma alla radio: lo conobbi che avevo quattordici anni e lui non era ancora vescovo. Eravamo della stessa diocesi di San Miguel. Diventai un suo fidato collaboratore e poi suo amico. Leggendo il suo diario si trova il mio nome. C’è anche una pagina dedicata alla nostra amicizia e questo è un dono prezioso».